Il sogno dello Stato che tutto ripara
In tale fase, quanti si agitavano in modo scomposto contro il riemergere dei commerci internazionali e contro le logiche d'impresa apparivano talvolta attardati difensori di vecchie ideologie in rovina. Forse oggi però il vento sembra cambiato e di questo offre testimonianza un volume (Supercapitalismo. Come cambia l'economia globale e i rischi per la democrazia, edito da Fazi) scritto da Robert B. Reich: uno degli uomini più influenti dell'establishment americano - è stato anche segretario del lavoro durante la presidenza Clinton - ed esponente di punta di una sinistra largamente egemone nelle maggiori università degli Usa. Reich ricorre al solito repertorio degli statalisti e, nella versione italiana, può anche avvantaggiarsi della prefazione di quel protagonista di innumerevoli imprese tra affari e istituzioni (dalla Consob alla Federazione Italiana Gioco Calcio, alla Telecom) che risponde al nome di Guido Rossi. Come a quest'ultimo, a Reich il capitalismo non piace in primo luogo perché minaccia la democrazia: ovvero sia, in quanto restringe gli spazi di quel controllo sulla società che il potere democratico egemonizzato dal ceto politico esercita in ogni Paese. In realtà, sarebbe davvero complicato restaurare gli antichi poteri di interdizione, anche perché oggi i grandi capitali (si pensi ai fondi pensione) sono molto mobili, liquidi, e si spostano rapidamente dove trovano migliori opportunità. Una dirigenza che si irrigidisse finirebbe per minare le basi stesse del proprio potere e si troverebbe a regnare nel deserto. Reich ne è consapevole e nonostante questo non rinuncia a scagliare la propria maledizione contro un destino tanto cinico. Pur se sa come immaginare un'alternativa credibile e come restaurare gli Stati nazionali d'antan, la cultura di uomini come Reich bestemmia il nostro tempo nella speranza che si possa ritornare al "primato della politica". Con effetti che iniziano a farsi sentire. È proprio per il prevalere di tale retorica che i maggiori paesi occidentali stanno progressivamente mutando orientamento. E su tale punto la differenza tra destra e sinistra è spesso solo nominale, poiché in molte circostanze sono proprio gli esponenti conservatori a invocare una strenua difesa delle logiche assistenziali e della massiccia presenza dello Stato nell'economia. Come questo libro attesta, per giunta, non sono i teorici dello Stato totalitario ad occupare con più disinvoltura la scena. Nazismo e comunismo sono fantasmi, così che oggi la libertà individuale viene aggredita in modo subdolo. Non a caso, uno dei termini con cui taluno cerca oggi di ingabbiare sempre più l'iniziativa privata è la cosiddetta "economia sociale di mercato", che negli anni Cinquanta rappresentò - nel mondo tedesco (si pensi al grande Ludwig Erhard) - una svolta assai radicale in direzione della concorrenza e che oggi invece viene sempre più contrabbandata quale copertura ideologica per un nuovo dirigismo. Magari gestito in nome dei "valori". Una delle scelte con cui Erhard fece decollare l'economia tedesca e pose le basi del "boom" fu la decisione, da un giorno all'altro, di abolire ogni controllo sui prezzi. Gli odierni fautori dell'economia sociale di mercato, invece, sembrano proporci l'esatto opposto, demonizzando oggi i petrolieri, domani i panettieri, dopodomani i pastai, e via dicendo. Reich ci parla dell'America, ma egli è un sintomo di una malattia diffusa. Quanti hanno cuore le ragioni della libertà dei singoli e credono necessario preservare l'autonomia della società dallo Stato, allora, sono chiamati a moltiplicare i loro sforzi.