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Il ricordo di De Gasperi non è mai scontato. Ogni ...

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Per questo lo sguardo cade inevitabilmente su una classe dirigente, riposizionata negli ultimi quindici anni entro i confini di un bipolarismo in via di perenne assestamento, desiderosa di conservare e aggiornare il magistero del più grande interprete di quella che potremmo definire la «riconquista democratica» dello Stato da parte dei cattolici italiani. Si potrebbe anche obiettare, non senza ragione, che i termini della battaglia politica sono oggi molti diversi da quelli a cui lo statista trentino dovette far fronte nel corso della sua lunga attività pubblica. Sarebbe una facile considerazione, ma non per questo adeguata. Volta a volta possono mutare le condizioni che avvolgono e definiscono un processo politico: ciò nondimeno, al di là di configurazioni specifiche e datate si ripropongono, spesso in altri contesti e con altra modalità, identiche questioni di merito. Oggi il confronto tra le forze politiche ruota attorno all'ipotesi di un riordino nei meccanismi finanziari inerenti i rapporti tra Stato, Regioni e autonomie locali: è lo scenario del federalismo fiscale che alla luce della modifica del titolo V della Costituzione, intervenuta nel 2000, dovrebbe fornire le gambe a una trasformazione ulteriore dell'ordinamento repubblicano in senso - si dice - compiutamente federalista. Ora, nonostante gli sforzi volti a chiarire il significato e l'impatto di tale strategia di riforma, in una parte della pubblica opinione agisce il sospetto che nei geroglifici di tante formule tecniche si nasconda il pericolo di una lacerazione dell'identità e della coesione nazionale. Basti pensare alla recente iniziativa del sindaco di Capo d'Orlando, il quale ha ritenuto a modo suo di partecipare al dibattito sul federalismo provvedendo a togliere da una piazza l'intestazione all'uomo-simbolo del nostro Risorgimento, vale a dire Giuseppe Garibaldi, declassato da eroe nazionale a pubblico malfattore. In sostanza il tema della fragilità delle istituzioni sembra ciclicamente sparire dall'orizzonte della politica italiana. Avviene così che i gruppi dirigenti facciano a gara nel primeggiare, come che sia, nella complessa e delicata partita delle riforme istituzionali. Sulla spinta della polemica leghista, tutti si riscoprono fautori di una qualche prospettiva federalista in nome e in virtù del superamento di quel male antico che si esprime storicamente nel centralismo statale. Qui c'è un equivoco dovuto alla presunta omogeneità di proposte e soluzioni. Altra cosa è la difesa e la valorizzazione delle autonomie locali: da essa non viene alcuna minaccia all'integrità nazionale. Anzi, ne deriva una forza maggiore d'integrazione e stabilità. Infatti l'Italia delle cento città, forte della sua antica e gloriosa tradizione comunale, può vivere e respirare soltanto in un contesto nel quale la ricchezza delle diversità dei propri territori si riflette o si compendia in un ordine costituzionale rappresentativo e garante dell'unità del Paese. Ciò che appare dunque in linea di continuità - autonomismo e federalismo - contiene prospettive molto diverse. Al fondo, facendo bene attenzione, agisce sempre un conflitto di ordine culturale e politico. Proviamo allora ad andare con la memoria a un tempo lontano e per questa via, secondo l'auspicio iniziale, tentiamo di recuperare un collegamento utile con la lezione degasperiana. Quando nel 1918, a guerra ormai finita, il Parlamento di Vienna si riunì per l'ultima volta, il giovane De Gasperi si alzò per presentare, d'accordo con i deputati liberali triestini, una mozione in cui si prendeva atto della fine dell'Impero Austro-ungarico e si proclamava il ritorno delle terre irredente alla madrepatria italiana. Al contrario, in funzione di un assetto di tipo federalista per l'area di Gorizia e Gradisca, i cattolici Bugatto e Faidutti del Partito popolare friulano votarono per il mantenimento di un nesso di fedeltà all'Austria. L'episodio è illuminante. Il popolare De Gasperi, cresciuto nei primi anni del Novecento all'insegnamento della scuola sociale cattolica e legato al progetto nuovissimo, volendo usare l'aggettivazione di Murri, della corrente democratico cristiana, coltivava in maniera forte e sincera il disegno di un ordine statuale moderno a forte vocazione autonomista. Lo dimostrò più avanti, all'indomani del secondo conflitto mondiale, quando operò con forza e autorevolezza per riconoscere lo Statuto della Regione Sicilia, addirittura prima della promulgazione della Carta costituzionale. De Gasperi non era affatto un centralista. Condivise con Sturzo e con altri la battaglia per il decentramento, proponendo anzitempo l'avvento del regionalismo. Eppure, quando alla fine del tunnel rappresentato dalla Grande Guerra si profilò l'alternativa tra un'ambigua soluzione federalista e l'adesione a un'Italia unita, non ebbe incertezza alcuna. Il gesto patriottico muoveva da esigenze più radicali, per meglio dire estreme, ma ciò non toglie che dentro la logica degasperiana vi fosse e dunque vi sia un elemento stabile in grado di produrre ancora oggi un effetto di chiarificazione sulle prospettive più generali del Paese. Ecco, in conclusione, dovremmo cercare di tenerne conto, specie in questa fase in cui dominano argomentazioni e iniziative di profilo tattico, per non cadere nostro malgrado nell'ansiosa rincorsa di un federalismo instabile e controverso. *Senatore del Partito democratico

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