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«Ho vissuto quelle ore correndo per strade spaventate, ...

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Così Enzo Bettiza nel suo ultimo libro («La primavera di Praga / 1968: la rivoluzione dimenticata», Ediz. Mondadori, pagg. 160, euro 17,50) rammenta quelle ore drammatiche dell'intervento sovietico a Praga, e siamo al 20 agosto del 1968, al chiudersi di una vicenda cominciata il 5 gennaio allorché Alexander Dubcek era stato eletto segretario generale del PC cecoslovacco. Una nomina che aveva inaugurato, dopo la caduta dello staliniano Novotny, una stagione di riforme unica nella storia del paesi satelliti dell'Unione Sovietica. Il clima era di speranza, la televisione parlava di un «comunismo dal volto umano», si organizzavano tavoli per raccogliere firme sulle petizioni referendarie, quelle promosse da «Literàrni Listy», il settimanale degli scrittori, contro le menzogne del Cremlino. Tanto bastò perché l'Unione Sovietica, dov'era al potere Leonid Breznev, l'uomo delle cliniche psichiatriche contro i dissidenti, avvertisse il pericolo di una secessione, di una reazione a catena - come avverrà in anni più tardi al tempo della glasnost gorbacioviana - capace di sovvertire l'impero creato da Stalin e caparbiamente tenuto in vita dai suoi successori. E dopo un mese di incontri e di estenuanti trattative a Bratislava, nella notte del 20 agosto le truppe congiunte del Patto di Varsavia - i sovietici ovviamente alla guida - occuparono l'aeroporto della capitale cecoslovacca, mentre una colonna di carri armati irrompeva a Praga tra lo sgomento dei cittadini. All'alba del 21 un commando del Kgb arrestò Dubcek nella sede del Comitato Centrale del partito comunista. Il leader della «Primavera» praghese venne trasferito a Mosca. Per scendere in seguito, una dopo l'altra, le scale della degradazione, prima ambasciatore in Turchia, poi giardiniere a Praga, quindi idraulico a Bratislava, fino al giorno del crollo dell'impero dell'Est, e sarà il commediografo Vaclav Havel, nominato nel 1989 presidente della Cecoslovacchia non più comunista, a riesumarlo dal nulla, dandogli il merito che gli spettava. Nel frattempo il Paese invaso reagiva come poteva. basterà ricordare nel gennaio seguente, il 1969, il sacrificio di Jan Palach, lo studente che si diede fuoco quale estremo gesto di protesta contro l'occupazione sovietica. E non fu il solo. L'Occidente dal canto suo tacque, alle prese con la contestazione studentesca archiviò gli avvenimenti di Praga come un fatto «interno» al blocco sovietico. E forse era proprio su queste difficoltà dell'Occidente che Breznev contava per condurre a termine la «normalizzazione» della Cecoslovacchia. A quarant'anni di distanza libri, articoli, tavole rotonde si stanno curvando su quei fatti nel tentativo di darne un giudizio definitivo. Non poche le idee in contrasto, ma una almeno in comune. Che fu una rivoluzione, ma al tempo stesso un' illusione. L'illusione che nel sistema sovietico ci fossero dei margini possibili di libertà da conquistare e da sfruttare. La prima sconfessione di un'idea di tolleranza e di un rinnovamento possibile, si era avuta a Berlino, e si era rimediato erigendo un muro, subito soprannominato il muro «della vergogna». Quindi nel 1956, a Poznan, in Polonia, allorché la polizia aveva aperto il fuoco sulla massa dei dimostranti scesi in piazza per reclamare salari e condizioni di vita migliori. Nello stesso anno a Budapest, insorta per chiedere il ripristino delle libertà civili e contro l'occupazione sovietica dell'Ungheria, ridotta al rango di una colonia. E si era reagito con l'intervento dei carri armati; tenendo presente, come ultima contraddizione, che al potere, in quel 1956, c'era Nikita Kruscev , il grande destalinizzatore, sempre convinto tuttavia che quello sovietico fosse il migliore dei sistemi possibili, bastava toglier via i delitti inutili , rinunciare a Stalin e ritornare a Lenin. Praga fu la conferma ultima e in un certo qual modo definitiva dell'incapacità profonda del comunismo al potere di sopravvivere altro che con la violenza e la repressione. Fino alla crisi a catena apertasi con il crollo del muro di Berlino, quando un potere virtuale rivelò tutte le sue crepe, finendo per scomparire dal grande libro della storia.

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