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Solzhenitsyn, il profeta scomodo per la sinistra italiana

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Sarebbe interessante sapere in quante Università e in quante scuole superiori italiane si sono studiate e si studiano le sue opere, a cominciare da Una giornata di Ivan Denisovic. E' un quesito che rivolgo, in primo luogo, ai ministri Gelmini e Bondi. Vittorio Foa, azionista e non comunista, persona per altri versi degna, ad esempio, fece di tutto per impedire a Feltrinelli l'acquisto e financo la mera consultazione di Arcipelago Gulag. Non voleva dispiacere alle Botteghe Oscure. Nell'arcipelago nostro, quello dell'egemonia dell'ignoranza militante sul comunismo, merita un penoso cenno il conformismo prono di Alberto Moravia. Da un verbale sovietico, datato 30 aprile 1972, si apprende che Moravia e la consorte Dacia Maraini intendevano compiere un viaggio di circa venti giorni in Urss. Il segretario dell'Unione Scrittori, Markov, a riprova dell'affidabilità del narratore italiano annota per il CC del Pcus e per il Kgb: "Moravia ci ha dato ampie assicurazioni di non avere affatto intenzione di incontrare Solzhenitsyn, nè ha mai toccato finanche nei colloqui privati il problema dell'esclusione di Solzhenitsyn dall'Unione degli Scrittori". Solzhenitsyn, nel 1975, attraverso un network statunitense, invia un messaggio profetico all'Occidente, avvertendo che in Vietnam e in Cambogia sta per scatenarsi l'inferno. Il quotidiano l'Unità lo indica subito a dito come malato di mente. Il Comitato centrale del Pci, di rinforzo, vota una risoluzione di sostegno al carnefice Pol Pot. Quando comincia il genocidio, con la prima deportazione in massa dell'intera popolazione di Phnom Penh, fine aprile 1975, l'Unità - che Dio la perdoni - riduce l'efferato crimine contro l'umanità ad "evacuazione dettata da ragioni logistiche". Tra i sostenitori della solidarietà non a Solzhenitsyn, bensì ai Khmer rossi, volendo citare solo i viventi, spiccano i nominativi di D'Alema, Petruccioli, Bassolino e, spiace dirlo, di Napolitano. Anche quando fu ormai chiaro che si trattava di soluzione finale a danno del popolo cambogiano (la strage riguardò più di un terzo della popolazione), nessun comunista italiano opinò di restituire a Solzhenitsyn almeno un certificato di salute mentale. E Giorgio Napolitano? Il nostro bravo (oggi) capo dello Stato sul caso Solzhenitsyn diede, allora, il peggio di sé. Sull'Unità, 20 febbraio 1974, stroncò i giudizi del grande dissidente russo, stimando la perdita della cittadinanza, la cacciata dall'Unione Scrittori e, quindi, dalla patria (13 febbraio 1974), come ragionevoli soluzioni. Non risparmiò neppure riferimenti grossolani "alle cospicue somme da lui accumulate, grazie ai diritti d'autore, nelle banche svizzere". Inoltre, Napolitano rimarcò: "Ma nessun contributo dànno al positivo scioglimento di questi difficili nodi le rappresentazioni unilaterali e tendenziose... le accuse arbitrarie, i tentativi di negare l'immensa portata liberatrice della Rivoluzione d'ottobre...". Infine, in luogo del vocabolario dell'intolleranza, un po' di luce, ricordando chi fu accanto a Solzhenitsyn, come segretaria. Mi riferisco a Irina Ilovajskaja Alberti (1924-2000), direttrice a Parigi del periodico "Ruskaja Misl" (Il pensiero russo), dal quale diede voce ai dissidenti Heller, Pliutch, Bukowski, Maximov, Siniaski, Ginzburg, Natalia Gorbaneskja. Irina fu sempre in prima linea nelle campagne per la liberazione di Sacharov ed Helena Bonner. Fu grazie a lei, se io stesso riuscìi a penetrare la profondità e la sensibilità dell'animo russo, comprendendo davvero il pensiero e la religiosità di Solzhenitsyn. A Solzhenitsyn è giusto associare Irina Alberti, un'eroina del secolo XX, tanto esemplare e straordinaria che Giovanni Paolo II confessò: almeno una volta al giorno il pensiero va spontaneamente a questa grande figura di cattolica e di combattente per la dignità e la libertà degli uomini.

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