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L'esilio gli insegnò a leggere nei cuori

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Alle spalle, un anno avanti, nel 1961, il rapporto di Nikita Kruscev sui delitti di Stalin, non quello segreto del 1956 riservato ai membri del partito, ma quello pubblico letto nell'aula del 22.o Congresso. In contemporanea la cacciata della mummia staliniana dal Mausoleo di Lenin, abbattute le statue del dittatore, il suo nome su piazze e su strade tolto via nel corso di una sola notte, e persino una città cara ai ricordi dell'ultima guerra, Stalingrado, che diventava semplicemente Volgogrado, la città sul Volga. L'uscita di "Una giornata nella vita di Ivan Denissoviv" faceva parte dello stesso processo di liberalizzazione del sistema sovietico, nel tentativo di ridargli slancio sollevando le coscienze dal terrore. Solo che la dittatura aveva talmente condizionato il buon popolo russo, che l'apparizione di un tale racconto venne accolta, almeno in prima battuta, più con sgomento che con gioia. Che i Gulag esistessero lo si sapeva, che fossero dei campi di sterminio dove la vita dei detenuti era appesa a un filo, la gente non lo ignorava; ma gli avevano detto che era meglio non parlarne. Fu in quei giorni che la Casa editrice Einaudi mi chiamò da Torino: dovevo tradurre di fretta il racconto, e inoltre cercare "quel Solzhenitsyn" per fargli autorizzare la pubblicazione. Ed eccomi nella dacia di Solzhenitsyn, all'estrema periferia di Mosca. Un uomo non troppo alto, due occhi capaci di leggerti dentro, di capire subito se gli eri amico o nemico. Istintivamente mi venne da pensare: "Quest'uomo è un profeta". Un profeta del pensiero, l'amico di una Russia sfruttata e depressa, che egli amava con una intensità incredibile. Non accettò subito di autorizzare quella traduzione, dapprima volle sapere chi ero e come la pensavo, chi fosse quella Casa editrice di una lontana città chiamata Torino. Mi ci volle molta pazienza per conquistarne la fiducia, che quando arrivò fu totale. Debbo aggiungere che il suo aiuto fu prezioso, per quel tanto di gergo dei gulag che contiene il racconto. Fu un lavoro forsennato, spedendo a Torino la traduzione a pezzi e bocconi. Con Solzhenitsyn che almeno una volta perse la pazienza: "E se mandassimo Torino al diavolo?". Ce la feci comunque. Ebbi modo nel frattempo di conoscere le vicissitudine di Solzhenitsyn negli anni bui dello stalinismo trionfante. Aveva perso il padre addirittura prima di nascere, per essere allevato in grandi ristrettezze dalla madre ("Che mi diede più amore che cibo"). Brillante studente di matematica e fisica, aveva dovuto interrompere gli studi allo scoppiare della guerra entrando in un reparto di artiglieria, dove per due volte era stato decorato. In seguito… la lettera a un amico, dove incautamente criticava la condotta della guerra da parte di Stalin. In tempi di censura imperante quella lettera era stata letta, col risultato di una condanna a otto anni di lavori forzati. "Una giornata nella vita di Ivan Denissovic" era il frutto di una esperienza diretta. Lasciai Mosca al chiudersi del 1964, dopo la caduta di Kruscev. Ma seppure da lontano continuai a seguire le vicende di Solzhenitsyn nella Russia di Leonid Brezhnev, l'uomo delle cliniche psichiatriche contro i dissidenti. A partire dal 1965 le sue opere erano state vietate nell' Unione Sovietica. La qual cosa non aveva distolto Solzhenitsyn dal compito, quasi una crociata, che si era prefisso. Scriveva racconti (bellissimo "La casa di Matriona" ), affreschi storici straordinari (cito "Agosto 1914"), nel contempo continuando la sua impietosa denuncia dell'universo dei campi di lavoro. Il Nobel nel 1970, la pubblicazione in Occidente (1973) del suo "Arcipelago Gulag" fecero traboccare il vaso. Facendo scattare una norma del Codice Penale sovietico lo espulsero dal suo Paese. Lui si rifugiò in Svizzera ( dove scrisse "Lenin a Zurigo"), quindi in America, nello Stato del Vermont che fra neve e ghiaccio gli ricordava la Russia. Fu qui che lo raggiunsi per un'intervista televisiva. Talmente felice di incontrarmi, che mi obbligò a restare suo ospite per un paio di giorni. Nell'esilio aveva guardato meglio dentro di sé, riscoprendo Cristo e le radici di una Russia eterna che nemmeno lo schiacciasassi comunista era riuscito a distruggere. Mi mostrò con orgoglio i suoi tavoli da lavoro, che erano tre: uno per scriverci, uno per la raccolta dei materiali, e uno ancora per depositarvi i manoscritti che rivedeva di continuo. E al chiudersi di questo incontro, una professione di fede: "Non posso nemmeno pensare di non ritornare mai più in Russia nel corso della mia vita". E c'è ritornato nella Russia post-comunista, forse un po' deluso di trovarla così assetata di successo e di denaro. Ma di certo felice che la morte, quando fosse arrivata, dovesse coglierlo nella sua terra, e non altrove.

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