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Una Sicilia senza tempo nella favola di Camilleri

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Sembra di vederle perché ce le racconta lui e dalle sue parole, solo apparentemente in lite con la lingua italiana, visto l'uso del personalissimo dialetto siciliano, emerge un mondo immenso, come un affresco barocco del quale affascina l'insieme e la ricchezza di particolari. Ci si può perdere nei suoi particolari, per poi ritrovarsi sulla strada maestra del corpo del racconto. È in tutte le librerie, già premiatissimo dai lettori, «Il casellante», nella bella edizione Sellerio, 11 euro, 143 pagine, firmato da quel «geniaccio» di Andrea Camilleri che dello stupirci ha fatto un'abitudine che sembra non si perderà mai. Siamo tra Vigàta e Castelvetrano, zona immaginaria, ma tanto reale, che ci è diventata cara con il commissario Montalbano. Ma di lui nemmeno l'ombra. Sembra che Camilleri abbia usato quello Sherlock Holmes della Trinacria come un cavallo di Troia all'incontrario, cioè non per farci invadere da qualcuno, ma per introdurre noi, i suoi lettori, in quella Sicilia cosmopolita, senza tempo e senza età nella quale costruisce le sue storie. Sì perché oggi quella Vigàta che non esiste è però nei cuori delle persone: Camilleri l'ha fatta diventare più vera che mai. E allora leggendo questo «Casellante» si sentono i profumi di Sicilia, si prova anche un po' di dolore alla schiena quando si parla dei sedili di legno della terza classe di quel trenino e si prova subito conforto alla descrizione di quelli di prima: «'mbottiti e cummigliati di villuto rosso coi poggiatesta bianchi coll'orlo arraccamato» e neanche ci si stupisce tanto nello scoprire che la seconda classe, semplicemente, non esiste: nella Sicilia di Camilleri è così, o signori o poveracci. In quest'universo singolare e da favola vivono pieni di gioie e di speranze Nino Zarcuto e signora, Minica. Lui, in una Sicilia incredibilmente lontana da quell'Italia fascista a cui molti invece la vedono indissolubilmente legata, sorveglia il passaggio a livello, facendo un mestiere che, vista l'epoca, i primi anni Quaranta, è quasi un titolo nobiliare. Casellante: si lavora in divisa, si ha a disposizione uno stipendio sicuro e si è investiti di una grande responsabilità: quella del passaggio in sicurezza del treno. Che, sempre per i tempi, paragonato ad oggi, era come fare l'astronauta. Ma quel Nino è poco marziale, poco «in divisa», poco in sintonia con i febbrili fervori nazionalisti che ribollono nel pieno di una guerra e in vista dello sbarco alleato. La favola di Camilleri, scritta in quel dialetto che l'autore ci ha insegnato a capire ed apprezzare (ma chissà i traduttori come la riporteranno nelle lingue straniere?) se ne viaggia così, come il treno Vigàta-Castelvetrano su binari sempre più in discesa, fino a far piombare la storia nel dramma. «Il casellante» assomiglia a tutti gli altri scritti, e sono proprio tanti, di Camilleri, e si discosta da tutti, ma proprio a volergli cercare un parente tra i molti si accosta di più a quel «Maruzza Musumeci» dello scorso anno. E si deve aprire un discorso nuovo su Camilleri scrittore che trovando in «Maruzza» e soprattutto in questo nuovo «Il casellante» un più ampio respiro nella psicologia e nel racconto esce anche dai suoi... binari abituali. Inevitabile accostarlo a quel gran filone kafkiano che, tra metamorfosi e ricerca di giustizia, lascia l'uomo da solo con se stesso e con i suoi incubi. Camilleri scrive tanto, tantissimo, sembra voglia far contenti tutti quei lettori che, appena terminato un suo libro, non vedono l'ora di cominciarne un altro. Nonostante questo non è mai stato così lontano da quei molti (ma sì, anche bravi) scrittori che lavorano in modo industriale: tanto per non far nomi come Michael Crichton o Stephen King. Andrea Camilleri è rimasto l'ultimo buon artigiano a cercarsi bei pezzi di buon legno di quercia, allisciandoseli e tagliandoseli da solo per allestire splendidi oggetti di artigianato locale che, come sempre accade in questi casi, fanno furore in tutto il mondo. E, quando ci mette quello spruzzetto di fantasia in più, rischiano anche di diventare delle opere d'arte.

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