Si era detto, soprattutto dalla sinistra, nel corso della ...
Il voto unanime del Parlamento sulla ratifica del Trattato di Lisbona, ha smentito la funesta previsione propagandistica. Non c'è stata una sola defezione tra i deputati e la Camera ha scritto une delle pagine più significative della sua storia recente. A dimostrazione del fatto che l'Europa, comunque declinata, a seconda delle sensibilità e delle culture delle diverse forze politiche, è nell'anima della politica nazionale, confermando la vocazione degli italiani a "sentirsi" europei a tutti gli effetti e a continuare ad onorare una scelta antica che ha visto protagonista il nostro Paese nel lungo cammino compiuto dalla partecipazione alla costruzione della prima istituzione continentale, il Consiglio d'Europa nel 1949, insieme con altre cinque nazioni (oggi dell'organizzazione di Strasburgo ne fanno parte quarantasette), al Trattato di Lisbona in via di definitiva approvazione da parte dei due Stati che ancora mancano all'appello, la Repubblica ceca e la Svezia. In verità, il Parlamento tedesco e quello polacco pur avendolo ratificato, non hanno ancora completato la procedura in attesa delle firme dei rispettivi capi di Stato, mentre l'impasse registratosi con il referendum irlandese che lo ha bocciato, pone qualche problema non marginale che a fronte del vasto consenso non potrà tuttavia che essere risolto positivamente. Infatti, il Consiglio europeo ha approvato la proposta dell'Irlanda di riesaminare la questione in occasione della riunione dello stesso organismo il prossimo 15 ottobre. L'Europa è dunque più vicina? Questo, naturalmente, è ciò che tutti ci auguriamo. Ma non dimentichiamo che una cosa è ratificare un Trattato ed un altro è "inventare" una vera e propria politica europea in grado di far sentire non soltanto gli Stati, ma anche i cittadini membri una effettiva comunità sovranazionale, culturalmente e politicamente integrati in una sorta di nazione più grande che trascende quelle da cui trae legittimità, ma non le annulla, anzi ne esalta le specificità e sugge da queste la propria identità che a tutti gli effetti è "plurale". Certo, se ci ferma al solo dato "burocratico" del Trattato di Lisbona, che riprende con alcune modifiche, disposizioni già contenute nel Trattato che adottava una Costituzione per l'Europa, bocciato dai referendum francese ed olandese, non si comprende la sua funzione e la sua "utilità". Il nuovo Trattato, insomma, non "fonda" l'Europa, ma è lo strumento che permette agli Stati ed ai popoli europei di avere una politica comune, un'economia competitiva, un sistema di difesa e di sicurezza forte abbastanza per potersi garantire non soltanto la sopravvivenza, ma anche di interagire con gli altri soggetti al fine di scongiurare o di fronteggiare i conflitti presenti e futuri. Senza dimenticare che esso consente di affrontare con determinazione comune le grandi emergenze del nostro tempo, dagli sconvolgimenti climatici alla regolamentazione dei flussi migratori, dalla povertà alle crisi alimentari, dalla desertificazione di vaste aree del Pianeta alla penuria di acqua che già si manifesta in forme drammatiche. Un'Europa "globale", insomma, in grado di prevenire gli sconvolgimenti derivanti dall'uso distorto delle culture e delle fedi religiose che alimentano il terrorismo e di rappresentarsi come elemento equilibratore nelle tensioni soprattutto mediterranee affiancando lo sviluppo del Processo di Barcellona rilanciato dal presidente francese Sarkozy e dalle istituzioni continentali nella forma di Unione per il Mediterraneo. Il Trattato, dunque, è la "chiave" che apre la porta dell'Europa. Chi lo leggesse come il fine e non come il mezzo non ne capirebbe la portata. Infatti, esso conferma quel che nel Trattato costituzionale era già esplicitato e lo rilancia con la forza di un progetto politico, vale a dire l'attribuzione della personalità giuridica unica all'Unione europea. Finora non la mancanza di questo requisito aveva impedito all'Unione di stipulare accordi con Stati terzi o con organizzazioni internazionali sul piano economico e della difesa dei diritti specifici della persona e dei popoli. Una riforma non da poco, insieme con la delega da parte dei membri a legiferare e ad adottare atti giuridicamente obbligatori. A chi sostiene che, per questa via, l'Europa prende forma a discapito delle sovranità nazionali, cedute in blocco ad un organismo burocratico, si può e si deve replicare che la sovranità continentale è legittimata dalle singole sovranità che proprio per questo non vengono meno, ma trovano nell'integrazione la loro esaltazione, alla stessa stregua dei particolarismi nazionali che hanno nella nazione condivisa il loro status riconosciuto e valorizzato. Il tempo dei piccoli nazionalismi è tramontato. Resta la nazione, naturalmente e nel senso espresso da Ernest Renan: un plebiscito di tutti i giorni. L'Europa dovrebbe tendere a concretizzare questo stesso obiettivo immaginandosi, attraverso le sue classi dirigenti ed i suoi popoli, come una comunità cementata da un patriottismo storico-culturale che ha trovato finalmente un assestamento vincendo piccoli egoismi e facendo prevalere le ragioni unitarie, sia spirituali e culturali che politiche ed economiche, nel nome di un nuovo patriottismo. Quello stesso che faceva dire ad uno dei più grandi europeisti del secolo scorso, Richard Coudenhove-Kalergi, fondatore di "Paneuropa", che "l'Europa non è che una grande nazione, al di là da ogni divisione di lingue, di Stati, di ragioni economiche. Il nostro amore va alla nostra comune madre, l'Europa, madre di tutte le nostre patrie e di tutte le nazioni, genitrice di tutti gli europei e di tutte le europee". Compito della politica è suscitare questo sentimento. Quando l'Europa sarà sedotta dalla sua stessa storia e la sua essenza diventerà patrimonio comune delle giovani generazioni europee, il sogno dei padri potrà dirsi realizzato. Ed anche in un burocratico Trattato, come quello di Lisbona, verrà rintracciata una scintilla di anima.