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De Sanctis, l'intellettuale che ricostruì la «Storia» dei capolavori letterari italiani

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che ci fece leggere la "Storia della letteratura italiana" di Francesco De Sanctis. Meno male, perché qualcosa abbiamo imparato. E anche se poi altri, e magari ben più raffinati, strumenti critici, ci hanno suggerito sguardi più profondi, complessi e fecondi, sulla nostra cultura, dal fonte battesimale ai romantici e ai veristi, De Sanctis resta. Con la sua "lezione". Vogliamo chiamarla "morale"? Sì, ma lontano da ogni didascalia, predica, sermone, ditino puntato che ci ammaestra sull'universo e dintorni. La "moralità" di De Sanctis è l'"umanità". E cioè un'idea dell'arte che non se ne sta appartata, ma diventa religione e filosofia, e "si confonde" con le istituzioni politiche e amministrative, con la società, con la cultura, con la vita nazionale. Per carità, non si pensi all'"engagément" di sinistra, sinistrese e sinistrata memoria. Gli scrittori amati da De Sanctis - da Dante a Machiavelli, Bruno, Campanella, Galileo, da Vico a Parini, Alfieri, Foscolo, Leopardi, Manzoni - non servono né il potere né l'"opposizione di Sua Maestà", ma il bello, il vero, il giusto. Si impegnano in prima persona, spesso "a Dio spiacenti ed ai nimici sui", dunque maledettamente "scomodi", per trasformare la loro vita in testimonianza. Non è detto che conseguano degli obbiettivi: ma "cercano". Esplorando l'uomo e la società, interrogandosi su Dio e sul Nulla, non rinunciando a dibattere e a combattere, facendosi alfieri di una poesia in cui forma e contenuto corrispondono, offrendosi, se necessario, come "vittime", affinché il valore del sacrificio sia di monito e di ispirazione a chi resta. Ecco, in De Sanctis c'è questa retorica "alta": dunque c'è la convinzione che tanto più la scrittura esprime al pieno forza e bellezza, quanto più è sostanza esemplare. Il poeta come eroe? La bellezza formale come "frutto" di un alto contenuto morale? Dunque, un no deciso a ogni percorso letterario estetizzante, pago di sé nello scintillìo delle invenzioni, nel narcisismo della creatività autoreferenziale, nel nichilismo della calligrafia preziosa ma vuota di principî e di fini? Allora, Benedetto Croce coglie nel segno, quando scrive che De Sanctis "sommette la poesia a un criterio extrapoetico"? Beh, qui la disputa è antica e destinata a riproporsi, nel variare di approcci critici, toni, spunti polemici, argomentazioni ecc., da qui all'eternità. Una cosa è certa: la "Storia della letteratura", che tanti anni fa ci vide lettori ora riottosi ora partecipi, ci propone un ruolo alto dell'intellettuale. Una funzione educativa che, in qualche modo, "sollecita" la nostra coscienza: ti sfida ad essere "magnanimo" nel senso dantesco del termine, e questo è forse chieder troppo: "troppo" non è, invece, l'invito volto alla responsabilità di chi, non pedantemente ma in maniera generosamente propositiva come il Virgilio di Dante, dovrebbe farsi "maestro". E grazie alla "retorica" del "vir bonus dicendi peritus", che è poi colui che conforma l'"altezza" dello stile alla "nobiltà" delle cose scritte. Ben venga, dunque, a sconvolgere l'orticello dei minimalisti, degli esteti con contrassegno massmediatico, degli impegnati a ritmo alternato, l'onda d'urto di un magistero vigorosamente impolitico, o, se si preferisce, anacronistico; ben venga l'idealismo in armi di chi poteva parlare dell'amore e di Dio, della poesia e della patria, dei valori, della giustizia, della libertà, della dignità, profondamente convinto che tutte queste "grandezze" dovessero stare insieme. Ben vengano De Sanctis e il suo Dante, che, sì, è umano troppo umano, ma è anche capace di andare e guardare "oltre", e, proprio perché si è fatto carico delle sofferenze della vita e di quelle del pensiero, è Ulisside in mare aperto, dunque "nostro fratello" se di fraternità andiamo in cerca.

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