La scandalosa modernità delle cortigiane
I grandi specchi dei più antichi ristoranti di Parigi portano ancora i segni dei loro graffiti: amavano verificare l’autenticità dei diamanti appena ricevuti incidendo i loro nomi o facendo disegnini piccanti sulle specchiere dei locali di lusso. Erano le cortigiane, chiamate così anche se non appartenevano a nessuna corte e divennero lo status symbol del XIX secolo e, circondate da un eccitante lusso sfrenato, nell’epoca borghese del risparmio vennero ironicamente chiamate le “grandi orizzontali” alludendo alla posizioni in cui avevano accumulato le loro immense fortune. I ritratti delle sedici donne fatali dell’Ottocento che Giuseppe Scaraffia presenta in Cortigiane (Mondadori, pagg. 224, euro 18,50) sono un affresco culturale, sociale e di costume del demi-monde, termine inventato da Dumas figlio, grande frequentatore di cortigiane, per designare l’universo della corruzione portata nella società francese da quel genere di seduttrici con il loro esempio. Dall’altra parte c’era le Gran Monde, l’alta società, quella che preferiva un modello di moglie remissiva e definiva sacra la famiglia. Secondo alcuni erano delle prostitute, per altri erano “agenti di Borsa con il seno”, per altri ancora delle mantenute. Quasi tutte di origini povere, rifiutate dalle famiglie e costrette fin da giovani a cercare l’indipendenza, erano belle, intelligenti e audaci. Avevano ai loro piedi non solo grandi scrittori e poeti, musicisti e pittori (da Baudelaire a Rugo, da Dumas a Flaubert, da Liszt a Rossini, da Manet a Courbet) ma anche potenti politici, che nei loro salotti colti, brillanti e spregiudicati imbastivano strategie trasversali. E giornalisti, naturali alleati di chi voglia e sappia creare un'immagine. Il lusso era la loro grande arma di seduzione e cambiare spesso finanziatore era la loro forma di indipendenza. Erano sempre loro, infatti, a decidere quando lasciare un amante o tradirlo anche ostentatamente per ingelosirlo, tanto non venivano cacciate come accadeva alle mogli adultere. Nel suo affresco ottocentesco, Scaraffia ci pennella sedici professioniste del desiderio, dalla Signora delle camelie, aThérèse de Paiva, Alice Ozy, Lola Montez, Mogador, Gora Pearl, Giulia Barucci tutte abbondantemente ritratte dagli amanti artisti o raccontate come femme fatales nei romanzi. Sessualmente disinibite, non vendevano solo i loro corpi, ma anche la gioia di vivere, lo smalto della conversazione, il prestigio dei loro inviti, la capacità di movimentare ogni incontro. Avevano i vestiti più invidiati e gli uomini più amati. Avevano lo spirito, il denaro e la celebrità, uscivano coperte di perle e camelie, di rose e diamanti. Erano la bandiera di un piacere senza domani. Avevano quello che le altre donne sognavano e gli uomini a volte non potevano permettersi: la libertà. Ad apprezzarle più di qualunque altro, e ad avere con loro i commerci più vari, erano i grandi artisti dell’epoca, da Balzac a Baudelaire, da Manet a Mallarmé. Fu un giornalista potente, Emile de Girardin, a consigliare al principe Napoleone, detto Plon-Plon, cugino di Luigi Filippo, la cortigiana Anna Deslions, che amava stare molto tempo a letto quando per ragioni d’opportunità non era costretta ad andare a teatro o al Café Anglais. Era una statuaria bellezza bruna, aveva la pelle bianchissima. Il via vai di uomini sulle scale del suo appartamento di lusso era intenso. Un giorno, il napoleonide incontrò salendo un commediografo che scendeva. Gli disse: «Ingannato da un uomo di spirito, è ancora una fortuna». L’altro gli rispose: «Disonorato da un’altezza reale, è pur sempre un onore». Ed ecco, nell’incrocio degli eventi del 1848, quando vengono fatte e disfatte molte fortune e molte idee, la figura della marchesa di Païva, all’origine povera ebrea polacca cresciuta nel ghetto di Mosca, arrivata fortunosamente a Parigi, bella e intelligente, associata dapprima a un pianista di vaglia e approdata infine al matrimonio effimero con un tenebroso parente dell’ambasciatore portoghese e diventata quindi marchesa, tanto parsimoniosa nel concedersi agli adoratori, quanto esosa di denaro. Ed ecco la famosa Alice Ozy, che a tutti i costi voleva fare, non senza qualche talento, il teatro. Per sedurla, l’impenitente Victor Hugo le aveva offerto di farla entrare alla Comédie-Française. Lei gli fece vedere il suo ampio letto professionale, dicendo: «È il mio album...», come oggi una modellina direbbe: «Questo è il mio book». E ci sono naturalmente Lola Montez, col suo ticchettar di nacchere a contornare l’ondeggio delle forme perfette, pronta a incantare i personaggi più illustri, da Monaco a Parigi, a Londra, finché non la colpisce la conversione e gira con la Bibbia in mano a far conferenze devote; e Olympe Pélissier, che tiene sulla corda Balzac prima di concedersi a lui con indifferenza, Olympe che fu devota infine solo a Rossini, ma anche possessiva e malmostosa, un cane da guardia del musicista vecchio e malato. Il panorama offerto da Scaraffia è vasto, e non si deve credere che i suoi siano solo dei cammei di alcune cortigiane, perché in filigrana vi si legge molto di più in termini di costume e di clima sociale e culturale durante tre quarti di Ottocento.