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Molti sono diventati magistrati solo per conquistare il potere

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[...]  quando resistettero al crollo della Prima Repubblica proprio gli eredi di quella scuola che avevano nel sistema dei media, dell'università, della magistratura le loro casematte». A questa riflessione di Bondi ha risposto Dino Messina sul Corriere della Sera: «Eh no, cordialissimo ministro, Tangentopoli travolse la Dc e il Psi perché in essi militavano politici e funzionari con spiccata propensione agli affari anche illeciti. Ricorda Mario Chiesa? L'ingegnere del Pio Albergo Trivulzio finì in prigione perché aveva preso le bustarelle, non certo perché non aveva imparato la lezione di Gramsci». Eh no, caro Messina. Le cose non stanno così. Parto da un episodio che voglio raccontare perché ritengo sia molto importante. È un ricordo personale che ha segnato tutta la mia vita professionale. Negli anni Settanta una signora amica di famiglia era infermiera presso lo studio di un dentista di Milano, liberale e anticomunista da sempre. Tra i suoi pazienti c'era però un suo carissimo amico, vecchio compagno di scuola, magistrato a Milano e dichiarato militante comunista. L'infermiera mi raccontò, ero ai primi passi della mia carriera giornalistica, che i due ex compagni di scuola, discutevano ogni volta di politica. Un giorno il dentista, spazientito, chiese al magistrato: «Ma mi vuoi finalmente spiegare perché tu che avevi sempre detto di voler diventare un medico, sei finito col fare il magistrato?». In un momento di sincerità questi rispose: «Perché mio padre era morto, la mia famiglia non aveva mezzi e il Partito mi fece studiare. Decisero però che era meglio se fossi diventato un giudice». Questa è la verità e sfido chiunque a contestarla. C'erano e ci sono magistrati che hanno studiato grazie all'idea, peraltro molto intelligente, di Gramsci, di conquistare il potere dall'interno, occupando settori chiave come i media, la cultura, l'editoria e infine la magistratura. Che c'entra questo aneddoto con Mani pulite? Dunque, facciamo un passo indietro e andiamo alla vicenda dell'illecito finanziamento del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi al Partito socialista. Bettino Craxi nel 1980 aveva da poco consolidato la sua leadership nel Psi. Da tempo, soprattutto dopo il famoso scandalo Eni-Petromin, (tangenti per un mega accordo petrolifero che avrebbero potuto finire nelle tasche degli avversari interni del Partito) Craxi aveva capito che il denaro, in politica, era importante. La Dc aveva fondi dai grandi enti statali, dall'America e dal Vaticano. Il Partito comunista direttamente dall'Unione Sovietica e dagli affari con molte società dell'Est europeo, nonché dal ricco sistema delle Cooperative rosse. Il Psi era un vaso di coccio, da questo punto di vista. Calvi, tramite la mediazione di Licio Gelli, fece avere dei soldi freschi al Psi. Craxi chiese ad un amico di vecchia data, Silvano Larini, dove collocare quei fondi. L'architetto Larini indicò un conto in Svizzera appartenuto a suo padre, nome in codice "Protezione". L'operazione rimase segreta fino a quando Larini non la raccontò ad Antonio Di Pietro, al rientro in Italia dopo qualche mese di latitanza nel 1993. Ebbene, tutti ormai possono leggere di questa famosa operazione che comportò tanti anni di voci e dicerie varie, fino all'esplosione finale che portò ad un coinvolgimento di Craxi e alle dimissioni del ministro della Giustizia, Claudio Martelli, testimone di quell'evento nel 1980. Però pochi sanno e forse mai hanno letto che Roberto Calvi, il Banco Ambrosiano e il gran mediatore Licio Gelli, non si limitarono a dare soldi al Psi, ma rifornirono ed in quota assai maggiore il Partito comunista. Siete forse a conoscenza di inchieste sul tema? Certo, in un primo tempo Di Pietro indagò sul Partito comunista e sui suoi dirigenti. Del resto il magistrato simbolo di quell'inchiesta tutto poteva dirsi che comunista o anche solo simpatizzante di sinistra. Di Pietro aveva tra l'altro ottimi rapporti con Paolo Pillitteri, sindaco di Milano e cognato di Bettino Craxi e quando fu nominato procuratore capo Francesco Saverio Borrelli, Rino Formica, a Craxi che gli chiedeva chi fosse il nuovo procuratore, l'ex ministro delle Finanze rispose: «È un amico». Però Di Pietro non poté, come disse lui stesso durante il processo Cusani, «varcare la porta di quella stanza a Botteghe Oscure», stanza in cui Sergio Cusani e Raul Gardini, presidente di Montedison, avrebbero deposto una valigetta 24 ore con dentro un miliardo di vecchie lire, cadeaux per la posizione assunta dai consiglieri di amministrazione del Pci nella vicenda Enimont. Fu stoppato Di Pietro, fu bloccata (e il modo ancor offende) il pubblico ministero Tiziana Parenti che aveva individuato filoni di indagine davvero importanti per mettere in luce un fatto storicamente accertato, ma mai dal punto di vista giudiziario provato: nel sistema politico italiano anche i comunisti mangiarono, e in abbondanza, alla greppia.

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