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Guardare la vita riflessa nel «Lago della mente»

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A sorvegliare il magico rito della purificazione la montagna del dei, il mitico Kailas sulla cui cima innevata il dio Shiva e la compagna Parvati sono uniti in un amplesso eterno. Davanti a quel diamante azzurro del Tibet, piccolo mare di trecento km. quadrati a 4500 metri d'altezza, che diventa verde smeraldo al centro, laddove la luce del sole attraversa l'acqua e si rifrange sui sedimenti minerali del fondo, il resto del mondo, la frenesia della vita quotidiana non esistono e la mente umana si annulla nella sua contemplazione. Uno spettacolo della natura che ti ipnotizza, ti «entra dentro», ti fa sentire le cantilene delle preghiere hindu, buddiste, sciamane e giainiste ti fa pensare che il «nirvana» si può raggiungere e che il Paradiso è lì, a portata di mano. Un Eden indimenticabile quando si torna ad essere un manager, un viaggiatore instancabile che anche nel lavoro trova lo spazio per soddisfare le tante curiosità e la tanta voglia di sapere e scoprire, facendo bagaglio di storie e leggende che sembrano legate da un sottile filo rosso. Quel «filo» per Eugenio Benedetti, italiano di «pura razza catanese», è il mare, che fin da bambino, con la tunichetta da angioletto nella processione del «Corpus Domini» lo affascinava, lo faceva sognare, lo sentiva intorno e dentro mentre cresceva la voglia di attraversarlo per arrivare in quelle terre dove i «Dervisches Tourners girano sulle spine dorsali al suono di cavigliere del Katakali», come canta un altro siciliano «doc». Ne «Il lago della mente» (Editrice Nuovi Autori, pagg.210) Benedetti realizza un affresco della sua vita con ironia retrospettiva, in un esame di coscienza senza rimpianti che mette insieme professione e famiglia, desiderio di ricerca di sè e scoperta dell'altro. Eugenio Benedetti, infatti, ha girato il mondo per affari, conoscendo i potenti dell'Est e costruendo cento fabbriche sotto le loro bandiere. Intorno ai cinquant'anni ha finalmente incontrato la «sua» donna e con lei e i due figli ha continuato a viaggiare nei cinque continenti. Il percorso di vita e del libro comincia dopo aver fatto versare calde lacrime alla giovanissima Teresa, con il «primo volo» nel '51 a bordo di un peschereccio che da Catania arriva in Grecia ed è una delusione: difficile trovare Apollo o Artemide tra i pescatori di Lindos o i facchini del Pireo. Anche il Partenone sembra soffocare nella confusione e nel disordine della città ed appare meno grande dei ciclopici templi di Agrigento o Segesta. Poi c'è la tappa a Tripoli una «sirena» che richiama l'autore con i profumi delle spezie, le voci del suk, l'ondeggiare delle palme al vento del deserto. Un «mal d'Africa» rafforzato dagli occhi neri e dalla pelle di seta di Aisha che l'autore lascerà per tornare a Catania. Poi l'Afghanista di trent'anni fa, dove Benedetti arriva a bordo di enormi elicotteri russi, scoprendo le montagne color indaco dell'Hindukush e i prati di papaveri d'oppio. Nei tempi in cui la nostra diplomazia, a causa della guerra fredda, guardava alla Cina come un Paese al di là del mondo, Benedetti era nell'Impero di mezzo a trattare affari. Aveva capito che il grande Oriente, gli sterminati mercati dell'Urss, della Cina o dell'India, potevano essere conquistati da quel made in Italy che oggi deve fare invece i conti con una concorrenza spietata. E le difficiltà incontrate dal manager-scrittore non erano soltanto la lontananza o la lingua, ma anche convincere banche e istituzioni italiane che c'era la possibilità di fare affari. Scopre Luanda, capitale dell'Angola con il coprifuoco notturno, mentre cerca di riaprire fabbriche abbandonate dai portoghesi, poi la Russia, il Kurdistan, l'Assam e il rito del «chakrapuja», e infine il monte Athos con i suoi monasteri abbarbicati sui roccioni rossastri scolpiti dal vento e i monaci salmodianti nel giorno di Pasqua. Al ritorno la voglia di una «skiti», di un posto inaccessibile da cui poter parlare con Dio. E scopre il monte Cimino dove Eugenio Benedetti trova la sua dimora, una villa rinascimentale piena di ricordi e affreschi, dove per l'angioletto catanese della processione del «Corpus Domini» è più facile immergersi nel «Lago della mente».

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