«Il divo» e «Gomorra», la brutta Italia che piace
Un giornalista ha scritto che a vedere "Gomorra" c'è da morire: di vergogna. Altri hanno gridato al capolavoro. Così la vergogna si trasforma in ammirazione, plauso, premio. Addirittura, quella vergogna è il segnale del benessere di cui gode il cinema italiano. È un gioco delle tre carte praticato da chi di premi se ne intende. Prima mossa: il libro di Saviano. Una denuncia spietata della realtà napoletana. Tanto spietata da convincere la Procura ad assegnare una scorta armata all'autore. Seconda mossa: le denunce di Saviano non smuovono d'un millimetro la repressione, tutto continua come prima, e anche peggio. Terza mossa: ne facciamo un film. Dov'è l'asso? L'asso è nella manica del giocatore che lo tira fuori al momento opportuno: "Il Divo"! Oddio, Andreotti?! Il banco vince. Come non averci pensato prima! Ma certo, Andreotti è la sintesi di quella "brutta Italia" di cui "Gomorra" è solo un aspetto. Gira e saltella la pallina nella roulette di Cannes. Tutti col fiato sospeso. La stampa di parte e di regime gonfia titoloni: si torna al grande cinema italiano! Forse, rischiando la pelle, si potrebbe obiettare che qualche buon film non è "il cinema italiano", ma l'euforia travolge. E allora, ritroviamo, tra aperitivi, cene, incontri, conferenze, proiezioni, barche, interviste, divi e varia umanità, la lucidità necessaria per capire quale Italia, sia pure in celluloide, abbiamo portato nel mondo. Tre film: "Gomorra", "Il Divo" e "Sanguepazzo". Tre opere di ottima fattura che ricordano il nostro nobile "cinema d'impegno civile" firmato Rosi, Petri, Damiani, Lizzani... Un impegno civile che, in verità, da "Le mani sulla città" in poi, non ha modificato per niente le regole del gioco. Come allora, però, l'impegno civile conquista premi, crea nuovi miti, guadagna miliardi e potere. La "brutta Italia" rende, guai a volerla ripulire.