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De Gregori - Per brevità chiamato artista

De Gregori - Per brevità chiamato artista

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{{IMG_SX}}Se affondate gli occhi dentro questo disco vedrete pezzi di vetro, e un uomo che conta i cani, e augura la buonanotte ai fiori. C'è tanta pioggia, ed enigmi sentimentali, e vaghe ombre della politica, persino una "sinistra paralizzata e una destra che lavorava". È un De Gregori «classic», quello che torna in questo «Per brevità chiamato artista», titolo scaturito non da una sorta di indomabile spocchia, bensì ispirato alla formula che identifica i cantanti in margine al contratto discografico. Con un occhio, spiega lo stesso Francesco, al concetto nobile e volatile dell'"arte", «per lasciare con questa frase un segno poetico e letterario». Il disco è nato tra foglietti, appunti e idee scaturite nelle notti della tournée teatrale dello scorso anno, e poi materializzato in studio, a gennaio, con la levità e la naturalezza di chi sa che è inutile interstardirsi sulla forma definitiva delle canzoni, «che sono roba viva, non foto da conservare nell'album di famiglia del salotto buono», e che quindi, come insegna Dylan, una volta registrate verranno modificate in mille sembianze diverse durante i concerti. Qui sono suonate a mezzo volume, tra gioia e disincanto, e un'altissima ispirazione narrativa: su tutte, la conclusiva "L'infinito", elegiaca e solitaria, sequel mascherato della "Donna cannone", quando ti rendi conto che la tua compagna, volata via per avventura, non tornerà dalle tue parti, e dovrai "viaggiare fino in fondo nella notte/senza guardarci dentro". È un disco, questo, di tenerezze cifrate, come il sensuale, andante "L'imperfetto", o la dolce ninnananna "Volavola", ricalcata su un modello della tradizione popolare italiana, o l'inquieta "Finestre rotte", un allarme metropolitano in stile rockabilly, dove "c'è gente senza cuore in giro per la città/di notte bruciano persone e cose solo per vedere che effetto fa". C'è il dolore trattenuto e virile (semmai affidato al lamento dell'armonica) nel folk rock di "Ogni giorno di pioggia che Dio manda in terra" e lo stomp comico e feroce di una società ridotta ai minimi etici in "Carne umana per colazione". Come altre rare volte nella sua carriera, il cantautore De Gregori prende in prestito un gioiellino altrui, quell'"Angelo di Lyon" scritto da Tom Russel e tradotto dal fratello Luigi Grechi, dove un americano intraprende un viaggio sentimentale dal West verso l'Europa, tra cattedrali gotiche, voti ed epifanie del cuore, alla ricerca di una donna idealizzata e forse perduta. Quanto al brano che dà il titolo alla collezione, è buon compendio alla "Valigia dell'attore". Qui c'è un artista che spende "tutta una vita ad arrampicare/come una scimmia sulla schiena di qualcuno", e che "quando cade sa cadere/e non si fa male/o non lo fa vedere". Versi che come pochi altri tratteggiano la divorante ansia e l'orgoglio esaltato di chi passa una vita tra palco e realtà, costretto a dare corpo ai sogni di tutti. Voto: 7,5/10

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