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In morte di una figlia che scherzava con la vita più seriamente che mai

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Parla così della sua Federica, spirata quarantenne. Parla lui che ha il doppio degli anni e la sorte innaturale di sopravviverle. La settimana di passione al capezzale della giovane donna squassata da un ictus è una ridiscesa nei reconditi della memoria e dei sentimenti. E i capitoli di questo «Federica» (Pagine ed.) scorrono come un film, tra presente in corsia e flashback di giornate lievi, di risate e di vacanze, di impuntature e di scontri con quella ragazza «sempre di corsa», che aveva adottato per sé il motto di Madre Teresa: «La vita è un gioco, giocala». Avviene così che una personalissima vicenda diventi una storia italiana. Federica è il paradigma di una generazione. In cerca di emozioni e di spiritualità, fa sorridere i genitori col suo primo amore, il Sandokan della tivvù, e poi li fa tremare quando s'incaponisce a lanciarsi col paracadute. S'infervora per Comunione e Liberazione e per i Neo Catecumenali. S'impunta perché vorrebbe restare tutta la notte al Piper, ma da grande si appassiona al tango. S'innammora, si sposa, si divide dal marito, si stressa a tirar su i due figli. Si dedica alla nonna in casa e agli allievi a scuola. Tutto ricapitola Gianfranceschi. E mentre ricapitola, rilegge avvenimenti come premonizioni. La prima, quando Federica nacque. Un giorno con la neve, strano per Roma. Un giorno gelido. Non è esercizio inutile, questa ricerca di senso. È anelito a un'armonia, entro la quale trovare parziale cura all'angoscia. È un modo di trarre il lettore, nota Gennaro Malgieri nella postfazione, «nelle atmosfere rarefatte del dolore che incontra la speranza». Soprattutto è un modo di non trattare la morte come tabù, da tacere in una contemporaneità in cui tutti devono fortissimamente essere giovani, sani, vincenti. «Federica» è anche un confrontarsi con la morte e rifarne un topos letterario. Come fu in Foscolo o in Thomas Mann. Come adesso non è più.

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