Tiberia de Matteis Regina indiscussa del palcoscenico con ...
Nel ruolo che sul grande schermo è stato immortalato da Ingrid Bergman, l'attrice sarà da domani all'Eliseo di Roma, al termine di una tournée molto faticosa che l'ha indotta a constatare il disagio del teatro di oggi in un Paese che non sa dare alla cultura il suo giusto e adeguato spazio. Cosa reputa interessante in questo testo di Bergman? «È una riflessione tormentata ed esemplare sui rapporti fra genitori e figli, molto sentita dal pubblico e sempre attuale. Ancora oggi ci sono tante difficoltà generazionali e quindi sia gli adulti sia i più giovani avvertono il problema della dissoluzione familiare. Bergman indaga l'anima umana femminile con una lucidità chirurgica. La scrittura è nitida e semplice, comprensibile per tutti, ma pure in grado di essere scavata in profondità senza lasciar nulla d'intentato come è accaduto grazie al fertile sodalizio umano e artistico con Maddalena Crippa». Come si è misurata con la figura di Charlotte? «Si tratta di un personaggio arduo e complicato con un'apparente leggerezza venata da amaro rimpianto. È una pianista che ha saputo esprimersi soltanto attraverso la musica e si è quindi autoconvinta di essere stata una buona madre assolvendosi da sola. Gli improperi e la rabbia della figlia la colgono impreparata. Sono due donne che non sono mai riuscite a darsi amore e alla fine anche Charlotte suscita tenerezza in quanto è una sconfitta, messa con ferocia davanti a una disperata ricerca di affetto». Il teatro è cambiato rispetto ai suoi esordi? «Attualmente c'è una grande confusione. Sono molto delusa da come viene gestito, sovvenzionato e abbandonato in un'assenza di leggi. Si pensa di poter recitare senza una formazione specifica: tutti credono di poter salire sul palcoscenico e il risultato è un teatro che nega se stesso e fa scappare la gente. Trovo sterile e insopportabile la multimedialità che snatura il teatro di parola. In passato c'erano meno proposte, ma la qualità era più alta. A Roma esistono più di settanta spazi scenici, privi di indirizzo e peculiarità. Sembrano mercati arabi in cui si accoglie e si vende di tutto. Non sono gli attori validi a mancare, bensì un sistema coerente e regolamentato». Potrebbe rinunciare al suo lavoro? «Ogni anno decido di smettere e poi leggo un copione come questo e mi appassiono. La situazione teatrale è però diventata molto pesante: se non sei inserito nel gioco degli scambi fra stabili non riesci a produrre uno spettacolo e a farlo circuitare. Inoltre la tournée non è più sopportabile e in questi mesi mi sono chiesta spesso per quale ragione mi fossi sottoposta, alla mia età, a uno sforzo simile non sempre ripagato. Quando sono in scena, però, mi passano tutti i dolori e mi sembra una benedizione. Non perdo il piacere di proseguire la mia carriera e non mi sarà facile farne a meno. Il teatro è una malattia!».