R.E.M. - Accelerate
La presidenza Bush lascerà almeno un buon ricordo: la germinazione di una nuova stagione del rock migliore, quello che si nutre di rabbia, che cerca motivazioni nel degrado sociale e politico, che perlustra il terreno diventato arido, per seminarvi speranza e consapevolezza. Ogni volta che l’America si ripiega su se stessa, qualcuno alza il volume e canta con più impeto e furia, affinché le coscienze di un popolo - di un mondo - si risveglino. Basterebbe una frase, un verso, come quello che Michael Stipe intona in "Houston", la canzone incentrata sul dramma dell’uragano Katrina: "Se non mi ucciderà la tempesta, lo farà il governo". Basterebbe quello, per capire che aria tira nel quattordicesimo album dei Rem, "Accelerate". Ma lì dentro c’è molto di più: perché in poco più di mezz’ora il gruppo di Athens apre e chiude le pagine di un diario contemporaneo che racconta - con l’elementare e irresistibile forza del rock - la vertigine di un "sentire" collettivo che man mano perde consapevolezza e capacità critica. Il titolo del disco allude a una delle grandi sindromi del millennio occidentale: il disturbo neuronale dell’attenzione. «Tutti viviamo questo deficit - ha spiegato Stipe - siamo bombardati da falsi messaggi, da comunicazioni sempre più veloci, di cui non afferriamo il senso». Se non quello, ovviamente, che pretende l’establishment politico-mediatico. E allora l’unica soluzione, per farsi ascoltare, è quella di fare più in fretta: come fanno appunto i Rem, con un lavoro che dura la metà delle operine pop di mercato (il produttore Jacknife Lee aveva addirittura ipotizzato pezzi da 30 secondi l’uno), ma che rivendica la magnifica urgenza di un rock trasparente, ma vitriolico e solidissimo. Li avevano dati per morti dopo il deludente "Around the sun", ma dopo 28 anni di carriera i Nostri hanno sfornato una meraviglia classica, dove imperversa la chitarra Rickenbaker di Peter Buck, e dove lo stesso Stipe (figlio di un veterano del Vietnam) trova una voce tonica, e a tratti dolente, per affondare il bisturi nel Male Americano. Fra la scintillante "Living well is the best revenge" (un pamphlet d’accusa contro le distorsioni della grande stampa) e l’ecologista "Until the day is done" (il cui arpeggio iniziale ricorda, certo inconsapevolmente, la "Hard rain’s gonna fall" dylaniana); fra il ritratto del qualunquista a stelle e strisce di "Mr.Richards" (eccolo di nuovo, lo spettro di Dylan e della "Ballata dell’Uomo Sottile") e la foto rabbiosa di "Man-Sized Wreath", ispirata alla controversa e tumultuosa visita di Bush ad Atlanta di due anni fa, per le celebrazioni su Martin Luther King. "Horse to water" fila via imprendibile su una corsia post-punk, "Sing for the submarine" cerca e trova antiche suggestioni psichedeliche, "Hollow man" è un buco di luminosa malinconia nel cuore del disco, che nell’occasione di "Supernatural superserious" e della stessa "Accelerate" offre un paio di bignamini per come dovrebbe essere sempre il rock, a certi livelli: rapido e inesorabile, ma salvifico, come un’intramuscolare di energia e speranza. Sopratutto in tempi come questi. Voto: 9/10