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Camilleri: "Quella mia Sicilia senza la mafia"

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Daallora (correva l'anno 1994), quello del Commissario Montalbano è diventato un appuntamento letterario molto caro ai lettori italiani, tanto da spingere il padre della riuscitissima saga poliziesca a pubblicare ben 12 romanzi tematici, tutti editi dalla Sellerio (non meno belli sono gli altri, di cui vanno certamente ricordati il «Il birraio di Preston» - vincitore di un premio Vittorini - ed «Il re di Girgenti», imponente romanzo storico ambientato in Sicilia nel primo quindicennio del '700). Grazie ad Andrea Camilleri (Porto Empedocle, 1925), oggi il romanzo giallo vive una nuova, fortunatissima stagione: basti sapere che lo scrittore, autore e regista siciliano è in testa alle classifiche, con oltre dieci milioni di copie vendute nel mondo. Molto discutere sta ancora facendo il suo recente libro sul «boss dei boss» Bernardo Provenzano «Voi non sapete», edito da Mondadori. Camilleri, i suoi romanzi sono tra i più venduti in tutta Europa. Viceversa, da qualche anno a questa parte, i lavori di esimi giallisti americani come Donald Westlake pare si vendano sempre con maggior difficoltà. Possiamo parlare di una rinascita del giallo europeo? «Direi proprio di sì. E c'è un motivo specifico: noi italiani siamo stati più coraggiosi, riuscendo a "contrabbandare" un esame critico della società del nostro tempo attraverso il giallo. Da Lucarelli a Fois, i romanzieri italiani sono stati, e continuano ad essere, più "espliciti". In sostanza, noi abbiamo tradotto in forma letteraria l'esperimento che aveva già cominciato in Italia Scerbanenco (si legga per esempio "I milanesi ammazzano il sabato": l'autore aveva previsto un incancrimento della società del suo tempo. I nostri scrittori hanno poi saputo tradurre la lezione di Scerbanenco in una chiave più moderna. Possiamo affermare che tutto il poliziesco italiano non è altro che il tentativo di definire uno spaccato della odierna società». Tuttavia, furono i romanzi polizieschi americani a rispecchiare per primi la corruzione e le contraddizioni sociali dell'epoca. In seguito cosa è accaduto? «La grande letteratura americana rappresentata da autori come Ammett e Chandler, (di cui i nostri scrittori hanno subìto un fascino considerevole, unitamente a quella di autori italiani come Gadda e Sciascia), faceva quello che in fondo proponiamo noi oggi: mostrare lo spaccato della società. Mentre gli americani col tempo si sono lasciati andare ad una forma -fine a se stessa- di speculazione, noi italiani siamo rimasti fedeli ad un realismo letterario di grande qualità». Perché un libro su Bernardo Provenzano? «Innanzitutto perché il "caso Provenzano" è un caso a parte: contrariamente a tutti gli altri mafiosi, Provenzano è uno di quelli che scrive: dalla lettura dei suoi scritti, i così detti "pizzini" (che la procura di Palermo mi ha dato la possibilità di analizzare attentamente, dopo che la Mondadori ebbe a propormi di farne un saggio) sono emersi la sua particolare concezione del mondo, il suo rapporto con la religione, il suo modo di proporsi come mediatore piuttosto che come "capo dei capi". Ammetto di essere rimasto intrigato da quanto emergeva dalla lettura dei famosi "pizzini"». Ossia? «Che Provenzano era un uomo dal carisma così forte da costringere persone come Salvatore Lo Piccolo o Matteo Messina, ad adeguarsi alla sua "strategia dell'immersione". Questo perché la politica guerriera di Riina non aveva pagato per niente». Il saggio su Provenzano segue una forma «dizionaristica». «Sì: ho scelto le parole più usate dal boss mafioso, ed altre più utili a delineare il contesto in cui si sono svolti i fatti». Non teme che libri come questo possano in qualche modo «mitizzare» la Mafia ed i suoi esponenti? «Direi di no: il mio, lo ripeto, è un saggio e non un romanzo. Inoltre, (ci tengo a ricordarlo perché non intendo guadagnare un solo centesimo con la mafia) tutti i proventi delle vendite sono destinati ai figli dei poliziotti uccisi dalla mafia». Nei suoi romanzi siciliani con protagonista il commissario Montalbano la mafia però è presente… «Non è esatto: si accenna alla mafia; essa è presente solo come "un rumore di fondo". Non ho mai scritto un romanzo con un protagonista mafioso, perché se così fosse, il personaggio mafioso verrebbe alzato di un gradino». Come accade invece in romanzi come «Il giorno della civetta» di Sciascia? «Sì. non v'è alcun dubbio che don Mariano Arena risulti un personaggio simpatico. E questo a mio avviso è sempre un rischio. È quello che succede del resto in opere letterarie o in film come "Il padrino", i quali finiscono con il nobilitare la mafia. Io ritengo che la migliore letteratura per la mafia sia quella che trae i propri contenuti attraverso i verbali della polizia e dei carabinieri; attraverso la lettura delle sentenze dei giudici». Come si arriva al grande successo, Camilleri? «Di questi tempi è difficilissimo. Almeno così è in Italia. Il mio primo romanzo è stato pubblicato dopo 10 anni di tentativi. Ad un giovane scrittore posso solo consigliare di armarsi di tanta pazienza e caparbietà!»

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