Anna Magnani, quella diva condannata alla solitudine
Con quelle lacerazioni che dovevano poi farla diventare la sola attrice tragica che abbia avuto il cinema italiano in tutta la sua storia. Anche quando, dedicandolo «alla sua arte», Rossellini le avrebbe fatto interpretare in «Amore» quel monologo fra dramma e sentimento, «La voce umana», che Cocteau, in teatro, sembrava avesse scritto per lei. L'ultimo suo incontro, però, con Rossellini perché, arrivata Ingrid Bergman, di cui divenne furiosamente gelosa, il sodalizio andò in pezzi, ed io, amico di entrambi, dovetti assistere con estremo disagio alla famosa pastasciutta in faccia quando, a pranzo all'hotel Cappuccini di Amalfi, Roberto, negando il tradimento che stava preparando, tentò di nasconderlo dietro impacciate bugie. Ecco Anna lontana da lui, dopo un tentativo poco riuscito di vendicarsi architettando con Hollywood quel film «Vulcano» che pensava di poter opporre a «Stromboli» interpretato da Ingrid. Era grande, era celebre, Visconti la chiamò per «Bellissima», una delle sue interpretazioni più festeggiate (quella faccia di madre umiliata ma furente), eccola protagonista, addirittura per Renoir, ne «La carrozza d'oro», con una sosta a Hollywood in tempo per vincere un Oscar (grazie a «La rosa tatuata» di Delbert Mann), seguita da un ritorno in Italia dove Renato Castellani la aspettava per «Nella città l'inferno» e Pier Paolo Pasolini per «Mamma Roma». Il suo ultimo fuoco perché, poco dopo, Fellini in «Roma» si sarebbe limitato a farla solo apparire, sia pure come una definitiva consacrazione del suo personaggio. Aveva lasciato via Amba Aradan dove l'avevo conosciuta e si era trasferita nel centro di Roma, a piazza del Gesù, in un appartamento all'ultimo piano di Palazzo Altieri, fra la sua collezione di cani di porcellana, dove andavo spesso a trovarla, per ascoltare soprattutto la sua amarezza. «Vieni tu — mi diceva — pochi altri amici, il telefono squilla di rado, per il cinema non mi cerca quasi più nessuno, Un'accozzaglia di ingrati...». Veniva, in anni giovani, dal teatro e adesso c'era tornata. Con personaggi all'altezza dei suoi impeti e del suo carattere sempre indomito nonostante tutto. Era stata «La lupa», avrebbe voluto recitare in una «Medea», a mio fratello Brunello, che scriveva anche per il teatro, chiese una volta davanti a me di pensare per lei a dei «personaggi di mostri», in cui, evidentemente aspirava ad esprimere tutti i furori che ancora si sentiva dentro, resi anche più distruttivi e laceranti dal vuoto che, tanto ingiustamente le aveva fatto attorno quel cinema che, in Italia, le proponeva al massimo dei film sexy e all'estero le chiedeva di partecipare a qualche avventura di James Bond... L'ultimo silenzio, la mia ultima visita. In una clinica romana dove Rossellini, sapendola in pericolo di vita, era tornato ad incontrarla promettendole addirittura un viaggio negli Stati Uniti per trovarle una medicina che, però, pur da lei sollecitato («A Robbè, salvami, sto morendo...») non risolse nulla. Oggi ripenso a lei, a quello che è stata e che ha dato (ricevendo così poco). Nessuno ha messo a frutto la grande lezione che ha impartito a tutti dallo schermo, nessuno — al cinema, in teatro — riuscì mai ad essere come lei. «Nannarella» la vezzeggiavano i romani, Anna però era il nome che le si addiceva di più. Il nome che la Bibbia ha dato alle donne forti e che la storia ci ha trasmesso quasi soltanto attraverso donne tragiche, Anna Bolena, Anna d'Austria, Anna di Bretagna, Anna Stuart. Tutte donne di guerra e di battaglie. Senza paure e sole. Come lei.