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dall'inviato Stefano Mannucci SANREMO Saranno le prime ...

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Più versioni dell'amore si sono battute per la supremazia finale: quella impetuosa, patinata e tecnicamente ineccepibile del duo Giò Di Tonno-Lola Ponce. Quella artificiosa e controversa della Tatangelo, costruita sullo sdoganamento della passione gay. E quella vagamente malata, da rockettaro perdente e con l'anima a brandelli, di Fabrizio Moro. Hanno vinto i primi, con un "Colpo di fulmine" che già nel titolo evoca il primato del sogno (e forse dell'illusione) sulle strettoie della realtà, e della nostalgia. Ed è la vittoria di Cocciante, mentore dei due interpreti (comparivano nella sua "Notre Dame") e grande tessitore nell'ombra. Lo sconfitto, anche lui fuori palco, è D'Alessio. Spirito sotto i tacchi. Poi dici perché tutto il cast aveva la bronchite: all'Ariston la temperatura diventa polare quando Anna Tatangelo tira fuori un paio di scarpine baby da regalare a Pierino. Neanche il Mago Zurlì all'Antoniano. La bella di Sora le aveva tentate tutte per vincere: anche spedendo il suo Gigione a trenta chilometri di distanza, tristemente confinato davanti alla tv, perché non gli venisse voglia di un'altra improvvisata in platea. Gli altri. La Gerini è sponsor occulta del suo Zampaglione, ma asseconda (bene) Verdone nella gag dei coatti: lei canta, lui suona la batteria, il gioco rollingstoniano è gustoso. Frankie arriva in scena con il giradischi e il fischio di De Andrè che apre "Rivoluzione": poi polemizza con Mughini e Fede (si vede che il testo pungeva, dai). Minghi si consola con una presentazione "ridarola" della Guaccero: sembra confusa, o felice. Chiambretti le chiede: «Ma cosa c'è sotto l'abito?». Irresistibili Elio e le Storie Tese (e la sorprendente Lucilla Agosti) nel loro crescendo rossiniano. Tricarico (insulta Chiambretti prima di cantare) si guadagna il premio della critica con la sua «Vita tranquilla». Praticamente il controcanto della spericolatezza vaschiana. Anche qui senza intonazione, ma con l'anima sulla luna. Mentre Sanremo è terra franata. Si cambia. La ricetta per salvare il Festival? Mandarlo in onda dalla Garbatella, una volta alla settimana. Con i cantanti chiusi in casa Cesaroni: quelli più giovani che si innamorano fra loro, e gli altri in ruoli sparsi: Zarrillo che fa Amendola, Mietta nei panni della Ricci, Minghi che ripete sconsolato: «Che amarezza». Oppure stringerlo in un preserale, così piazzi Carlo Conti: interpreti che si sfidano due a due, per mesi, a eliminazione diretta, partendo dai trentaduesimi di finale, come la vecchia Coppa Uefa. Un pezzo, il televoto da Ok Corral, e chi perde saluta subito. Poi a marzo si fa un bel seratone dall'Ariston, con dieci sopravvissuti: gli diamo la rete e il gladio, si scannano e uno solo canterà l'inno della vittoria. Il pubblico vuole sangue o sesso, qui gli hanno dato solo funghi allucinogeni: perché se stai davanti (o dentro) al video fino alle due di notte cominci a vedere baudi rosa e chiambretti volanti. È fisiologicamente impossibile resistere: quei pochi che hanno trovato con il televisore acceso al mattino erano mummificati. Casi pietosi, da civiltà degradata. Cappon arrosto. Davanti ai dati d'ascolto che sanciscono il sostanziale pareggio fra la quarta serata del Festival e la fiction di Canale 5 (25,84 di share contro il 24,97 nella prima parte), il direttorissimo Rai sembra Achab aggrappato all'albero maestro: «I numeri non ci danno ragione, ma il prodotto è stato di grande qualità e raffinatezza. Da lunedì rifletteremo con calma su Sanremo». A Viale Mazzini si preparano le celle di tortura. Per Pippone è già amarcord: «L'edizione del '68? Bei tempi, non c'era l'Auditel, potevamo permetterci Louis Armstrong. Ma sono contento di come abbiamo lavorato quest'anno. Si possono cambiare tante cose, ma questo è un evento che deve mantenere la sua eccezionalità. E non so neppure se ci sarò, nel 2009». Rimpiange i bei tornei sanremesi con le classifiche parziali, prima del "niet" dei discografici, che temono spennamenti mediatici per i loro usignoli. Ce l'ha con Briatore, che gli consiglia il pensionamento: «Da che pulpito», ribatte Pippone. Tiè. A te e a tutto il Billionaire. Opere di Fede. A Emilione, giurato di qualità, riferiscono di Jovanotti e della pipì in compagnia del Cavaliere. «A me Berlusconi non ha mai permesso di assisterlo», sospira l'anchorman. «Beato quel cantante». Il quale si scusa per la sua boutade: «Mi è scappata una battuta da avanspettacolo». Da Bagaglino, quasi. Tributi. Alle nove della sera, Pippo rende omaggio alle morti bianche sul lavoro. Glie l'avevano chiesto e lui non si è sottratto. Ma tre giorni fa, quando Don Di Noto gli aveva suggerito di ricordare i fratellini di Gravina, non si era trovato il modo per mettere in scaletta tre parole acconce. Un'altra stonatura. La peggiore.

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