Alle soglie delle elezioni in Spagna, il prossimo 9 marzo, ...

Lasciandosi tentare da un antifranchismo di ritorno, voglioso di cancellare memorie, smantellare monumenti e "processare i nostalgici". Magari mettendoci dentro anche lo scrittore Xavier Cercas che con "I soldati di Salamina"(Guanda, 2004) ha scritto uno dei romanzi più intensi e struggenti sulla guerra civile e su quella pietas che, nonostante tutto, può manifestarsi in mezzo alle scatenate furie ideologiche. Quasi un segno dello stile ispanico: trama di passioni ma anche di generosi atti cavallereschi. Un codice d'onore che ti porti dentro e che obbliga al rispetto del nemico, soprattutto quando la sua vita è nelle tue mani. Ma se si fa fatica a rispettare il nemico, ad accettare che abbia idee e "ragioni" contrarie alle nostre, quanto meno si dovrebbe rispettare e accettare la storia. Provando a raccontare che cosa è successo e perché. In questo caso, che cosa è successo in Spagna nella seconda metà degli anni Trenta. Tante le domande. A scendere in campo furono contrapposti totalitarismi? I neri contro i rossi? E perché le democrazie occidentali stavano dalla parte dei rossi? E la Chiesa da quella dei neri? E perché gli antifascisti comunisti massacravano gli antifascisti anarchici e troskisti? Cosa volevano Stalin, Hitler, Mussolini? Cosa voleva Mussolini da Franco? E quale fu il grado di gratitudine del Caudillo nei confronti del Duce che aveva favorito la sua vittoria con massicci interventi di uomini ed armi? Tante domande, dicevamo, con la ricerca storica impegnata a scavare e approfondire, aprendo nuovi orizzonti di dibattito (si veda il recente saggio di Romano Canosa dal titolo "Mussolini e Franco. Amici, alleati, rivali: vite parallele di due dittatori", Mondadori). Dove, comunque, si ripropone la figura di un uomo politico - Franco, appunto - che seppe resistere a ogni possibile pressione ideologica, rifiutando la pericolosa fascinazione dell'Asse. Ma Zapatero non sembra tenerne granché conto. E pare ignorare che il detestato Franco, pur nel suo cocciuto paternalismo clerico-conservatore, qualche passo in avanti nel segno della riconciliazione nazionale e della modernizzazione lo fece. Lontano le mille miglia dalla politica Caudillo, Zapatero lo è anche da quella del compagno Felipe Gonzales che, evitando gli sbandieramenti ideologici e le rivalse, negli anni '80 seppe dare un potente impulso alla Spagna post-franchista. E il nostro "bel tenebroso" socialista, non si mostra in sintonia neppure con l'intelligenza politica e l'equilibrio di Juan Carlos, sovrano dalle indubbie convinzioni democratiche ma tutt'altro che disposto a svendere gli archivi della memoria. Così cari anche a José Maria Aznar, il leader liberal-conservatore, che ha guidato il suo Paese dal 1996 al 2004 vero artefice della Nuova Spagna. La sua biografia politica ("Otto anni di governo per cambiare la Spagna", prefazione di Gianfranco Fini, Nuove Idee, pp.207, euro 15), ce la illustra con dovizia di buoni argomenti. Aznar come modello per liberali e moderati italiani? Di sicuro Fini guarda a lui con interesse analogo a quello tributato a Sarkozy e più che mai in un momento in cui si vanno ridefinendo identità e progetti del centro-destra in vista della campagna elettorale. Scrive Fini: «Libertà, famiglia, istruzione occupano un posto centrale nel pensiero "pragmatico" di Aznar. Sono stati i cardini, i pilastri della sua politica di governo e i punti qualificanti del programma del Ppe. In comune trasmettono o dovrebbero trasmettere il sapere, la tradizione, la cultura di un popolo; in comune formano e dovrebbero formare i cittadini, la classe dirigente del futuro». Dunque, per fare un gioco di parole, i valori hanno un valore. È su di essi che si costruisce. Il pragmatismo è l'efficienza e la lungimiranza di chi, poggiando su stabili radici, crede in una «democrazia della qualità», che lotti «contro la mistica della tolleranza asettica e del relativismo», chieda alla politica programmi chiari, progetti forti, capacità di decidere, coraggio e senso della responsabilità, promuova «l'autogoverno della libertà» ovvero «l'autogestione della società, in relazione a uno Stato ridefinito nel ruolo non di Leviatano pubblico, o di mero vigile urbano che fa passare tutto e il contrario di tutto (la democrazia agnostica) ma di arbitro». Meno Stato e più società? Meglio ancora: uno Stato con un volto, una storia, un insieme di funzioni e competenze che favoriscano lo sviluppo delle comunità naturali, come la famiglia, e facciano crescere la società «con apposite politiche economiche, fiscali e di accesso al lavoro». Il tutto nel segno della legalità, della libertà individuale, dei diritti umani, della meritocrazia.