Ungaretti, nel suo cuore si univano l'uomo e la poesia
Unomaggio all'uomo e al poeta, che nel suo caso coincidevano intensamente, raccolti da un potente sigillo di autenticità, di verità interiore. Il ricevimento fu offerto dall'allora presidente del Consiglio, Aldo Moro. Convennero quel giorno numerose personalità del mondo politico, culturale e artistico italiano, tra cui i "colleghi" Salvatore Quasimodo ed Eugenio Montale, ai quali da tempo Ungaretti veniva semplicisticamente accostato, a comporre una sorta di ideale triade "ermetica" - le "tre corone" della poesia italiana del Novecento. Quasimodo ricordò nel suo intervento il lungo itinerario ungarettiano, e la parte che spetta alla sua poesia nello scenario della cultura europea. Montale mise l'accento soprattutto sulle recenti poesie d'amore, valutandole come "segno inequivocabile della giovinezza d'animo del poeta e della freschezza perenne della sua poesia". Prese poi la parola Aldo Moro, attestando la gratitudine del Paese per l'onore derivato da Ungaretti, dalla "validità universale" della sua opera. Per poi concludere: "Il Governo è consapevole della esaltazione che lei ha fatto e fa dei valori umani. Non si può che restare colpiti e commossi dalla sua vitalità spirituale, intellettuale, artistica e morale. Perciò l'augurio che oggi si deve formulare non può essere che questo: Ungaretti continui ancora per molti e molti anni la sua preziosa attività. Il Governo ringrazia il poeta". A quel punto toccò a Ungaretti ringraziare Moro per l'onore resogli, nonché Quasimodo e Montale per la valutazione critica della sua poesia. Poi se ne uscì con una battuta che restò memorabile: "Non dico mai di avere ottant'anni: dico di averne quattro volte venti". Quindi aggiunse: "Non so se sono stato un vero poeta, ma so di essere stato un uomo; perché ho molto amato e molto sofferto, ho molto errato e ho saputo, quando potevo, riconoscere il mio errore, ma non ho odiato mai". La battuta degli ottant'anni, spirito a parte, era quanto mai appropriata a fotografare il momento reale che l'uomo, prima che il poeta, stava attraversando: un'autentica "seconda giovinezza". Il già proverbiale ardore ungarettiano si infiamma all'improvviso di pulsioni: da questa traboccante e incontenibile "piena del cuore" sgorga, per i suoi versi, una linfa che li nutre e rinverdisce: una nuova Primavera. Che cos'era accaduto al "vecchissimo ossesso" (come lui stesso usava definirsi)? Aveva semplicemente aperto il cuore - già vedovo, dal 1958, della moglie Jeanne - a una nuova stagione di slanci emozionali: innamorandosi prima della giovane poetessa Bruna Bianco, conosciuta a San Paolo del Brasile nella primavera del 1966; poi di Dunja, la "capricciosa croata" cui dedica la sua ultima poesia, "L'impietrito e il velluto", scritta tra la notte del 31 dicembre 1969 e il 1 gennaio 1970. Già l'incontro con Bruna aveva scosso, anche esteriormente, la sua vita. Ricorda Walter Mauro: "Con sorpresa Piccioni lo vede abbandonare il bastone, l'abito serio e la cravatta, e iniziare a vestire maglioni a giro collo, a conferma di un repentino ringiovanimento, una sorta di tuffo all'indietro che ne rinfresca la mente e le forze". Sono, come si sa, i prodigi di cui è capace l'amore in un uomo. Ma che Ungaretti fosse un uomo d'amore, inteso in senso lato (al di là cioè dei singoli rapporti), stava tutta la sua vita a dimostrarlo. Era profondamente vivo. E amava la vita come pochi. Sempre aperto, generoso, appassionato. Un poeta corale e unanime, oltre le barriere. Artista di vertici assoluti - eppure vicino alla gente, fraternamente umano e solidale.