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C'era una volta l'America dei grandi Padri Fondatori

McCain

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Itratti più "mediatizzati" e quindi propagandisticamente più rilevanti dei maggiori contendenti alla conquista della Casa Bianca sono infatti tutti incompatibili con l'universo dei Padri Fondatori: e questo perché a quel tempo le donne che Hillary Clinton oggi cerca di rappresentare non votavano, gli americani di colore che sostengono massicciamente Barack Obama pativano l'umiliazione della schiavitù, i mormoni di Mitt Romney ancora non esistevano e il patriottismo di John McCain, reduce dal Vietnam, sarebbe riuscito incomprensibile a chi combatté la guerra d'indipendenza per conquistare una pacifica neutralità, che avrebbe dovuto sottrarre a ogni logica di potenza. Il tempo ha però mutato in profondità gli Stati Uniti, che in origine era un paese di pochi milioni di britannici (il melting-pot era di là da venire), tutti raccolti sulle coste atlantiche: per lo più tra Massachussets e Virginia, da dove venivano Thomas Jefferson, autore della Dichiarazione d'indipendenza, e George Washington, generale vittorioso e primo presidente. Un testo utile ad accostare quel tempo e a cogliere quanto profonde siano le trasformazioni che l'America ha conosciuto è "L'invenzione degli Stati Uniti", un pamphlet scritto nel 2003 da Gore Vidal e che in Italia è stato pubblicato da Fazi. Autore di straordinari romanzi e da sempre appassionatissimo alle vicende del suo paese, Vidal ha una scrittura coinvolgente che riesce ad affascinare anche quanti sono estranei al suo progressismo radicale. Acutissimo saggista pure nelle sue opere di narrativa e rampollo dissidente di una famiglia importante della politica statunitense (lontano parente di Al Gore, ma soprattutto nipote del senatore Thomas P. Gore, figura cruciale del New Deal), Eugene L. Gore Vidal non perde le sue qualità di affabulatore quando lascia da parte i personaggi di fantasia e ci descrive le maggiori figure dell'America di fine Settecento. Il quadro che ne esce può apparire sconcertante: politici e intellettuali che nell'immaginario americano sono accompagnati da un certo tono epico vengono qui colti in tutte le loro debolezze. E così di Washington, che doveva molto del carisma all'altezza (intorno al metro e novanta), viene sottolineato ad esempio il livello di vita non adeguato al proprio reddito, ma soprattutto si evidenzia il suo essere stato un proprietario di schiavi. La questione è nota eppure continua ad essere motivo di discussione. In Italia un recente volume di Domenico Losurdo ("Controstoria del liberalismo, edito da Laterza) è stato tutto costruito intorno alla contraddizione che vede i teorici dei diritti naturali individuali e i combattenti per la lotta per l'indipendenza essere in palese contraddizione con loro stessi. Una simile tensione appare particolarmente clamorosa nel caso di Jefferson, il più filosofo tra tutti i protagonisti del tempo, su cui ha scritto una monografia di notevole interesse Luigi Marco Bassani ("Il pensiero politico di Thomas Jefferson", edito da Giuffrè). Pur convinti assertori dell'eguale dignità di tutti gli uomini, i Padri Fondatori non furono immuni dai pregiudizi dell'epoca, né dalle miserie dettate loro da ben concreti interessi. Eppure non di rado furono consapevoli di vivere dentro un tragico paradosso che l'intero paese avrebbe pagato caro. Ma Vidal va oltre la riformulazione di tali critiche. In particolare, egli richiama un tema che continua a segnare la vita politica americana: la tensione tra un partito innamorato della centralizzazione (allora guidato da Alexander Hamilton) e uno invece schierato a difesa delle autonomie statali e delle libertà dei singoli (secondo la lezione di Jefferson). Formidabile romanziere anche quando parla di storia, Vidal si sofferma sui delicati episodi che vedono Hamilton al "servizio dell'Inghilterra": come agente segreto e doppiogiochista. Ma l'autore enfatizza soprattutto la continuità tra una vocazione del partito hamiltoniano a eliminare progressivamente le libertà locali (i "diritti degli stati") e la tendenza ad abbandonare la politica estera "non interventista" che pure sembrava iscritta nel Dna della nazione americana. Si tratta di questioni ancora oggi al centro dei dibattiti, dato che oltre Atlantico ci si continua a chiedere se si sia il caso di ampliare (oppure no) il welfare State e, con ancor maggior passione, se sia proprio il caso di mantenere l'esercito statunitense in circa 150 paesi. E sebbene in queste ore solo un candidato coraggioso ma minore, il repubblicano Ron Paul, alzi al tempo stesso la bandiera dell'avversione al Big Government e del rifiuto di ogni politica estera aggressiva, è pur vero che la tensione tra jeffersoniani e hamiltoniani, tra l'America delle libertà e quella dell'Impero, continua ad attraversare come un fiume carsico i dibattiti sul futuro di tale eccezionale paese.

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