di GIAN FRANCO SVIDERCOSCHI Stiamo parlando di Hong Kong, ...
Senza più una precisa identità. Senza una "memoria" storica. Senza un nuovo "imperatore" (perché nessuno dei dirigenti comunisti, vecchi o giovani, sembra incarnare il mito imperiale rimasto nostalgicamente al fondo della coscienza collettiva) che sia capace di proporre una base unificatrice per questo immenso popolo. Già oggi, del resto, la Cina sembra essere divisa tra quelle due filosofie, o concezioni di vita, che da sempre si contendono il primato nel permeare l'anima della nazione. Da una parte, resta in posizione predominante il confucianesimo, impostato sul rispetto per gli anziani e l'autorità, e quindi ispiratore di una società armonica, strutturata, senza conflitti, con i suoi componenti legati da vincoli morali. Ma, proprio per questo, una società di tipo statico, livellata, facilmente dominabile e manovrabile dalla gerarchia politica. E poi, dall'altra parte, c'è il taoismo, che per certi aspetti si presenta come una vera e propria alternativa alla filosofia confuciana. Infatti, dà importanza alla dimensione individuale e personale dell'esistenza, incoraggia il singolo a seguire il proprio istinto, le proprie inclinazioni, ed esalta a tal punto il relativismo da scardinare il principio stesso di vita pubblica. Ebbene, forse per la prima volta nella storia, la Cina sta vivendo sulla propria pelle lo "scontro" diretto, frontale, tra queste due tradizioni filosofiche, tra questi due modi di intendere la persona e la presenza della persona nella società. Il confucianesimo - costituendo tra l'altro uno strumento prezioso per combattere i nuovi "guasti", come la cupidigia dilagante e la criminalità sempre in aumento - richiama inevitabilmente le sicurezze sociali del periodo maoista. Mentre il taoismo, ponendo l'enfasi sull'individualismo, si adatta ovviamente meglio alla nuova stagione caratterizzata da una sorta di capitalismo selvaggio, senza regole e senza freni. Chi vincerà? Ed ecco perché è di somma importanza che il "Regno di Mezzo", in questo momento di trapasso, di drammatico trapasso, riesca finalmente ad aprirsi agli "altri" e, prima ancora, ad accettare chi sia diverso per storia, per cultura. Non si può vivere in eterno chiusi in se stessi, isolati, anche per via di una lingua difficile, quasi ermetica. E soprattutto non si può vivere isolati oggi, nell'epoca della globalizzazione, e, per di più, se già si spalancano le porte per gli scambi commerciali. Come si farà poi a tenerle chiuse agli inevitabili influssi sociali e culturali? Sì, certo, l'Occidente ha molte cose da farsi perdonare dalla Cina. Deve farsi perdonare le tante inammissibili intromissioni e interferenze. E, in primo luogo, l'Occidente deve farsi perdonare le due terribili guerre dell'oppio. Quando tentò di soffocare quel popolo, imponendogli dei trattati vergognosi, avvilenti, e sfruttando quelle terre in maniera rapace, indecente, da veri ladroni. Ma è anche vero che, pur con tutti i suoi peccati passati, e pur con tutti i suoi drammi attuali, l'Occidente può aiutare la Cina ad assumere quei valori - a cominciare dalla libertà, individuale e collettiva, e dal rispetto dei diritti civili e politici - che la dirigenza comunista invece ha finora sempre negato o disconosciuto o, peggio, disprezzato. Certi fatti recenti - come gli attacchi al dissenso interno e la solidarietà al regime dell'ex Birmania dopo la repressione dei monaci buddisti - non sono stati dei segnali incoraggianti. Ad agosto ci saranno le Olimpiadi. E per la Cina sarà un test estremamente importante, decisivo. Lasciar passare questo evento senza cambiare nulla, significherebbe perdere un'occasione storica per rientrare a pieno titolo nella famiglia dei popoli, e per mettere in moto uno scambio di doni e di esperienze tra la Cina e il resto del mondo. Il che dovrebbe consigliare i Paesi occidentali, anziché boicottare i Giochi, ad approfittare di questo momento per moltiplicare le loro pressioni sul governo di Pechino. E, come l'Occidente dovrà impegnarsi sul piano sociale e politico, così le Chiese cristiane potranno dare un grande aiuto sul piano religioso e culturale. La Cina è un Paese ufficialmente ateo, e la gente si proclama tale apertamente, quasi orgogliosamente. Ma poi, la prima cosa che a Pechino mostrano ai visitatori stranieri, appena sbarcati dall'aereo, è il Tempio del Cielo, Tiantan, dove gli imperatori presiedevano le cerimonie e i riti maggiori dell'anno. E a ogni nuova tappa, a ogni nuova città, la prima visita è in genere a una pagoda buddhista. Dove ti spiegano le differenze tra il Buddha del passato e il Buddha del futuro, che ride sempre e ha una enorme pancia: segni dell'abbondanza e di una vita felice e soprattutto ricca, che sono poi le "richieste" fatte dalla gente - e dalla nostra stessa guida, anche lei dichiaratamente atea - quando va a pregare con una serie di inchini ritmati davanti alle statue e bruciando dei bastoncini di incenso. In una società fortemente pragmatica come quella cinese, il buddhismo svolge una funzione di estrema importanza, una funzione per così dire correttiva, appunto perché propone una visione spirituale della vita, della quotidianità. E immaginiamo perciò quale potrebbe essere il contributo di una religione come quella cristiana, che ha il grande vantaggio di coniugare l'attenzione a Dio con l'attenzione all'uomo, l'elevazione dello spirito al cielo con la solidarietà concreta agli altri esseri umani. Anche qui - va detto con molta franchezza - c'è un passato da purificare. La Chiesa cattolica ha sulla coscienza la responsabilità - o almeno una larga parte di responsabilità - del mancato incontro del cristianesimo con le religioni asiatiche. Fu un Papa, Benedetto XIV, a condannare nel 1742 i "riti cinesi", pregiudicando in questo modo il grande lavoro di inculturazione della fede cristiana fatto da due gesuiti, prima Francesco Saverio e poi Matteo Ricci. Ma, da allora, molte cose sono cambiate. C'è stato il Concilio Vaticano II, la Chiesa cattolica ha proclamato il suo rispetto per tutte le altre religioni e le altre culture. Giovanni Paolo II e ora Benedetto XVI hanno dichiarato espressamente la propria vicinanza al popolo cinese, e l'intenzione di non interferire nei problemi politici del governo di Pechino. Dunque, tocca adesso a Pechino di compiere il nuovo passo, mettendo fine a tanti anni di persecuzione dei credenti, favorendo la riconciliazione tra gli stessi cattolici, divisi tuttora tra l'Associazione patriottica e la Chiesa clandestina. E infine, su un piano più generale, rispettando ufficialmente la libertà religiosa, quindi il diritto di ogni Chiesa a compiere la propria missione alla luce del sole. Siamo arrivati alla fine del viaggio. E soltanto ora cominciamo a intuire di avere vissuto qualcosa di singolare, anzi, di irripetibile. Perché, senza volerlo, e forse senza rendercene pienamente conto, siamo stati comunque spettatori privilegiati e, quindi, testimoni di una Cina che tra dieci o venti anni non ci sarà più. O meglio, sarà talmente cambiata che nessuno - penso soprattutto ai più giovani, che avranno la possibilità di ritornarci - riuscirà a riconoscere. Per i ricordi, ognuno di noi ne avrà certamente uno preferito, più caro, da riporre nel proprio "cassetto". Ma non si possono non richiamare almeno due momenti particolari. La visita alla Grande Muraglia, scontata fin che si vuole ma così piena di fascino, di suggestioni, di ebbrezza, di stupore, e anche di fatica. E poi, le quattro ore in battello sul fiume Li, con lo scenario di una natura che ci ha offerto la Cina più vera, la Cina che non cambierà mai, con quei picchi carsici che sembrano disegnati dalla punta di matita di uno scolaro di prima elementare, e hanno nomi così fantasiosi che solo poeti e pittori potevano inventarsi: la Roccia che cerca il Marito, il Ragazzo che prega Guanyin (la dea della misericordia), la Collina del dipinto dei Nove Cavalli... E infine, non si possono egualmente non ricordare le innumerevoli occasioni in cui, visitando una pagoda o un museo o un giardino, ci siamo trovati immersi in masse enormi di cinesi, che approfittando dei giorni festivi si spostavano da una parte all'altra del Paese, per andare a visitare, anche loro per la prima volta, quella pagoda, quel museo o quel giardino. Insomma, questi ventisei turisti italiani hanno scoperto la Cina, o quanto meno una parte della Cina, nello stesso momento in cui l'hanno scoperta milioni di cinesi. Provando molte delle loro stesse emozioni, delle loro stesse sensazioni. E non è stata un'esperienza da poco!