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di LORENZO TOZZI Franco Zeffirelli vive una seconda ...

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E domani firmerà al Teatro dell'Opera la nuova Tosca del centocinquantenario pucciniano. La sua villa sull'Appia antica è un museo vivente tra cimeli imperiali e una selva di libri e foto in bella vista sul pianoforte a coda. Vi si ravvisano Callas e la Fracci, Karajan e Kleiber, Domingo e Pavarotti, insomma gli amici di sempre. Quale è la cifra di Zeffirelli regista lirico? «Il regista lirico non dovrebbe esistere perché c'è già tutto nel libretto dell'opera, specie nei grandi capolavori del realismo. In Bohème è già tutto scritto da Puccini, il regista è solo un realizzatore delle idee del compositore. Più siamo fedeli al compositore, più ne usurpiamo il merito. Spesso certi "poveretti" vi si accostano ignari, istupiditi dal vuoto culturale che ha travolto il mondo della musica e pensano di creare una loro visione. Mi ritengo un progressista, ma do all'autore e ai librettisti i loro meriti. Solo in certi melodrammi dell'Ottocento, un po' statici, si può tentare qualcosa di più. Ma non c'è bisogno, per inscenare la corte dei Longobardi, di mettere in scena Hitler che invade l'Europa». In scena bisogna dire tutto o lasciare all'intuizione del pubblico? «Il regista è come un drammaturgo. L'operista ha il vantaggio della musica, che può dire cose che la parola non può dire: il sentimento, la recondita armonia. Specie in Puccini c'è il ritorno su temi con richiami continui: senti fremere nell'aria certe note e riconosci i personaggi (Liù in Turandot). È una vergogna che nessuno si renda conto dell'importanza dell'opera. Dappertutto una volta c'era la grande ambizione di avere un Teatro d'Opera. Forse non c'erano allora altri mezzi di spettacolo, ma le nuove forme di spettacolo avrebbero dovuto arricchire e non distruggere il melodramma. Personalmente ho sempre rispettato l'opera, non ho mai fatto il trionfo di Aida con le jeep. Ma la gente si dimentica di tutto e i giovani vengono su ignoranti, seguono referenti poco significativi e sbagliano. Ho fatto gli spettacoli più moderni di lirica sin dal 1966, inaugurando il Lincoln Center con una produzione molto moderna. Anche quando ho operato qualche trasposizione, come per I Pagliacci ambientati a Napoli, mai ho prevaricato il testo. Anche al Teatro del Kremlino è stato un successo». Come si fa a rinnovarsi riproponendo gli stessi titoli? «Ho fatto otto diverse Traviate, nove Don Giovanni, anche molte Tosche. Mio dovere non è trovare qualcosa di nuovo, ma servire l'autore. L'opera non rimane sempre se stessa, come un quadro, ma è destinata a vivere nel tempo. Difficile scoprire nuovi valori in Tosca, l'esempio di opera realistica più perfetto. Sono rimasto sempre fedele in Tosca, al contrario di Don Giovanni o Traviata, dove sviluppavo elementi diversi. Tosca, La Bohème e Turandot sono infatti meno soggette a cambiamenti. La mia più recente Tosca era a Roma nel 2000 con Pavarotti e la direzione di Domingo per il centenario dell'opera». Schierarsi politicamente agevola o no un artista? «A me non ha agevolato, anzi mi ha danneggiato. Ma l'arte non è valutabile con criteri politici, a meno che non la si strumentalizzi. C'è un movimento culturale che ha infettato il mondo: è l'essere politically correct». Perché tanto miope e ostinato disinteresse della politica italiana di ogni colore nei confronti della musica? «A sinistra c'è più interesse. Nei Paesi civili non esiste il Ministero della Cultura, è un'idea dei Paesi socialisti ispirata ai philosophes illuministici del Settecento. Questo Ministero è sostenuto anche dai regimi totalitari che ne fanno uno strumento di penetrazione politica e propaganda. Così Stalin, Mussolini, Hitler. La cultura non deve essere amministrata dallo Stato, deve crescere spontaneamente col contributo del cittadino. Ma gli sponsor dovrebbero essere detassati: lo predico da anni ma inutilmente. Ci sono aggregazioni politiche che fanno finta di proteggere le arti, ma proteggono solo gli aderenti al partito. Non capisco perché debba essere un funzionario a decidere se sovvenzionare o no una produzione. La competenza ce l'ha chi crea e chi consuma la cultura. Il teatro dell'Ottocento era sovvenzionato dagli impresari e dai privati. Lo Stato conserva quest'arma di ricatto per premiare gli amici». L'esperienza della regia lirica le è stata utile anche nel cinema e nel teatro? «Nel primo dopoguerra nel teatro drammatico sono stato il primo italiano a rivoluzionare le regole: anche le scenografie erano moderne. La lirica venne in un secondo tempo. Quando si lavora con la musica c'è più libertà che con la sola parola: è la musica il più grande dono che Dio ha fatto all'uomo». C'è un legame tra la passione per la musica e quella per lo sport? «Si possono avere molti amori: è come se fossero due figli, uno che canta e l'altro che gioca al calcio. Io mi esalto al football come ad uno spettacolo». Lei è considerato l'ultimo grande maestro, e poi che accadrà? «Sono molto rattristato perché vedo tanti giovani che non sono quei giovani bestiali, che affollano le piazze e propongono ideali estetici e politici effimeri. Ci sono tra i giovani molti fiori che chiedono di sbocciare. Ma non ci sono più i maestri. Io sono cresciuto con grandi maestri come Visconti. Questo si è interrotto col Sessantotto. Tutto è stato ribaltato: via i maestri e tutto diventa legittimo. Ma se non la pensi in un certo modo, sei out. Bisogna insegnare quello che non si deve fare invece di esaltarlo, come accade spesso con registi tedeschi o inglesi. Non si può vedere il trionfo di Radames con i carri armati. Spesso i giovani non ricevono sufficiente fiducia. Bello è solo ciò che è "politicamente corretto": registi egregi come Strehler e Ronconi hanno fatto danni pazzeschi, hanno ammazzato il teatro. Sono stati cattivi maestri. Ci vuole invece pazienza e una dura ricerca».

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