Quegli anni generosi che si tinsero di rosso
Fu l'inizio del nostro '68. Il più lungo di tutti. Di quello francese, ça n'est pas que le debut, di quello americano di Berkeley e di Joan Baez. Il nostro '68 trovò al comando una classe dirigente che veniva da lontano: al di là degli spostamenti politici della giovane democrazia italiana, c'era sullo sfondo un gran vecchiume. Perché il passaggio dal fascismo alla democrazia piuttosto che rinnovare aveva in molti casi obbligato a posizioni retrive o semplicemente reazionarie quei maestri che, pure, in gioventù erano stati efficaci modernizzatori. Capitò allora - e sarà una delle ultime occasioni del nostro Novecento - che la politica anticipasse gli eventi. Magari non sapendo né orientare né, tantomeno, guidare. Sarà stato anche perché nelle confuse e spesso violente battaglie tra padri e figli le ragioni e i torti erano equamente distribuiti. Le due parti non arretravano di un centimetro nelle loro posizioni e questo sarà poi uno dei motivi della straordinaria lunghezza dello scontro. E dei danni che da esso sono derivati alla società italiana. La quale, però, deve pur qualcosa, per altri versi, al '68. Certo, se quella stagione avesse trovato una società meno cristallizzata a difesa di fronti ormai indifendibili, i suoi frutti sarebbero stati migliori. Nella realtà quei giovani che partirono da Valle Giulia per proseguire in anni e anni di spesso sterili contestazioni si imbatterono in un'Italia bloccata dalla guerra fredda e che non sapeva cosa fare della pesante eredità del fascismo. Quella fu anche la prima grande manifestazione di antipolitica perché sincera fu la protesta contro i partiti di sinistra e di destra. Una manifestazione antipolitica e perciò fortemente politica. Sarà anche per questo, per la fissità dei «poteri forti» italiani dell'epoca che si trovarono come per incanto sfiduciati da quei giovani, se poi alla fine fu un uomo politico cattolico e sicuramente moderato, Aldo Moro, a pronunciare discorsi intelligenti, su quel fenomeno, più intelligenti di altri, di quelli che davanti alla realtà si coprono gli occhi. È il Moro di quel discorso al consiglio Nazionale della Dc, nel novembre del '68, che afferma senza esitazioni: «Tempi nuovi si annunciano ed avanzano in fretta come non mai». Una profezia il cui unico errore sta nel prevedere una «fretta» che non ci sarà. Ma perché, poi, si dovrebbe aver fretta di sciupare la propria gioventù? Dice Moro: «Il vorticoso succedersi delle rivendicazioni, la sensazione che storture, ingiustizie, zone d'ombra, condizioni di insufficiente dignità e d'insufficiente potere non siano oltre tollerabili, l'ampliarsi del quadro delle attese e delle speranze all'intera umanità, la visione del diritto degli altri, anche dei più lontani, da tutelare non meno del proprio, il fatto che i giovani, sentendosi ad un punto nodale della storia, non si riconoscano nella società in cui sono e la mettano in crisi, sono tutti segni di grandi cambiamenti e del travaglio doloroso nel quale nasce una nuova umanità. Vi sono certo dati sconcertanti, di fronte ai quali chi abbia responsabilità decisive non può restare indifferente: la violenza talvolta, una confusione ad un tempo inquietante e paralizzante, il semplicismo, scarsamente efficace di certe impostazioni sono si un dato reale ed anche preoccupante. Ma sono, tuttavia, un fatto, benché grave, di superficie. Nel profondo, è una nuova umanità che vuole farsi, è il moto irresistibile della storia. Di contro a sconcertanti e, forse, transitorie esperienze c'è quello che solo vale ed al quale bisogna inchinarsi, un nuovo modo di essere nella condizione umana». La lunga citazione è, credo, utile a percorrere nella memoria quel brano della nostra vita che non ebbe «fretta» ma ispirò «un nuovo modo di essere nella condizione umana». Venne dunque la stagione dei diritti mentre appassivano via via fino a svanire. Quello che pure c'era di dignitoso e vitale in quello scontro fu presto archiviato per far luogo a furbizie e crudeltà. Oggi che la generazione del '68 sta andando in pensione c'è da chiedersi, tuttavia, se qualcosa di quell'avventura, che talvolta virò in dramma e si colorò di sangue, non ci sia da conservare. A una generazione arrogantemente e spesso cinicamente ideologica se ne sta per sostituire una disinvolta e che fatica a ritrovarsi nei valori. Ma ora non c'è davvero tempo per i paragoni. Addio al '68, quindi. Che non fu una primavera ma un freddo autunno.