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L'eterna giovinezza dei Led Zeppelin

Led Zeppelin

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[...] Quello, semmai, è il bullismo privo di colonna sonora che imperversa su internet, o nelle scuole; è il nichilismo degli adolescenti del Terzo Millennio, pronti a bruciarsi a duecento all'ora per l'ebbrezza di una curva e tre birre. Piuttosto, il rock è una vena carsica che attraversa il tempo, e lega più generazioni a uno stesso sogno: non quello di sopravvivere agli eccessi o a improbabili tentazioni spirituali, bensì di invecchiare con grazia, restando faustianamente intatti nell'anima, e facendo delle rughe o dell'incanutimento i segni di un'insospettabile potenza. A sessant'anni suonati, la scommessa attorno al ritorno dei Led Zeppelin era proprio questa: dovevano suggerire pathos, e non patetismo. Strappare i calendari e dimostrare che il talento, immenso, era ancora custodito nelle dita, sigillato nell'ugola. L'altra sera, per omaggiarne il ritorno in scena alla 02 Arena di Londra, si era mobilitato tutto il gotha della musica popolare: da Paul McCartney a mezzi U2, dagli Oasis ai Genesis, da Dave Gilmour fino a Sting, con l'immancabile corollario estetico di Naomi Campbell e Kate Moss. Diligentemente votati all'ascolto di due ore di Storia, con lo show in memoria del boss dell'Atlantic, Ahmet Ertegun, trasformato nel concerto del secolo ad uso di 18mila privilegiati. Nessuno però credeva che si trattasse di una riunione per una sola sera: i Led Zeppelin possono chiedere un cachet da tre milioni ad esibizione, e tutto è già pronto per il grande tour dell'estate 2008, con tappe stellari al Giants Stadium di New York e due notti nel nuovo maestoso impianto londinese di Wembley. Occorreva solo vincere le ultime perplessità del cantante Robert Plant, mentre Jimmy Page e gli altri avevano dato per tempo la propria disponibilità. E non è solo il business miliardario a richiamare stabilmente alla ribalta i Led Zeppelin, come già accaduto con gli altri giganti Genesis, Eagles o Police. Certo, decisivo è il fattore nostalgia, ma quello vale anche per i ritorni di gruppi pop di medio calibro degli anni Ottanta e Novanta, dai Duran Duran ai Take That, dalle Spice Girls fino agli ultimi della lista, gli Spandau Ballet ingaggiati per uno show a Las Vegas. No, le due ore in cui Plant, Page, il bassista John Paul Jones e il granitico batterista Jason Bonham (figlio dello scomparso John, e mai cooptazione è parsa più suggestiva e sensata) hanno occupato lo spoglio palco della 02 Arena hanno dimostrato che i Led Zeppelin hanno in più la «responsabilità» di agganciare milioni di maturi fans alla meraviglia del pieno sentire, all'urgenza vitalistica che non è solo dell'orecchio, ma anche di cuore, polmoni e anima. Hanno suonato tutti i loro classici, da «Good times bad times» fino alla conclusiva «Rock'n'roll». Hanno dispensato blues e scampoli esoterici, energia e levità. E quando Page ha affrontato l'arpeggio celestiale di «Stairway to heaven» tutti, in sala, giurano di aver visto gli orologi fermarsi, per un tempo sospeso, fino all'ultima nota.

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