Lidia Lombardi [email protected] Ve ...
Schivate - non vi farebbero entrare - l'atmosfera ovattata della buvette. Arrivate fino all'austera Sala della Regina. E qui vedete venirvi addosso quella fiumana di nerboruti minacciosi, sudati certamente sotto i cappellacci, e incavolati, e quella donna scarmigliata con il pupo in braccio. Ohibò, quasi vi spaventano, disposti come sono su un fronte di sei metri. Un po' come L'arrivo del treno dei fratelli Lumière, con quella locomotiva sbuffante che, seppure solo sul telone bianco del primo cinematografo, fece scappare gli inavvertiti spettatori. Solo che stavolta la regia del ritorno al passato è nientepopodimeno del presidente della Camera, Fausto Bertinotti. La terza carica dello Stato dal 29 novembre ospita nel «suo» palazzo uno dei quadri simbolo del Novecento, quel «Quarto Stato» dipinto nel 1901 da Giuseppe Pellizza da Volpedo, nel quale i proletari avanzano da uno sfondo scuro alla piena luce. Un corteo di protesta, uno sciopero - l'ispirazione contingente del pittore divisionista - ma anche (Veltroni ci scusi!) l'allegoria sociale del popolo che procede verso un futuro radioso, lasciandosi alle spalle l'età dell'oppressione. A fianco, un altro lavoro: il bozzetto (lungo oltre 7 metri) de il «Quinto Stato», la scultura con la quale nel 1984 Mario Ceroli rivisitò l'icona del 1901. Perché la scelta del travolgente Pellizza? Perché ricorrono i cento anni dalla morte (per suicidio) dell'artista piemontese. E perché, spiega Bertinotti, «questa mostra costituisce una prima finestra sul sessantesimo anniversario della Costituzione che si celebrerà il prossimo anno e che si apre con il primo articolo sulla Repubblica fondata sul lavoro. Nel tragitto che passa tra il quadro di Pellizza e quello di Ceroli si può inscrivere il percorso delle lavoratrici e dei lavoratori del Novecento». Dunque il presidente ex sindacalista e mecenate (ha favorito il restauro del fregio di Sartorio e quello della Sacra Famiglia di Giulio Romano, la mostra sugli emigranti in America, la riqualificazione dell'Insula Dominicana di San Macuto) ha voluto magnificare quella declinazione del lavoro che è lo sciopero? Lo pensano i maligni. Piuttosto il «divo» (nel senso di regale) Bertinotti, dall'alto del suo scranno istituzionale vuol forse lanciare un messaggio, nella procellosa discussione su welfare e legge Biagi, su scalone e precari, a Dini e a Rutelli, insomma ai moderati dell'Unione che fu. Perché «Quarto Stato» non è quadro rifondarolo, ma socialista. Erano i riformisti di Filippo Turati e della compagna russa Anna Kuliscioff (i fondatori, nel 1895, del Partito socialista italiano) i referenti di Pellizza. E il suo capolavoro divenne il logo di quella sinistra: nel 1905 «L'Avanti della domenica» ne donava una riproduzione, ornata da garofano liberty, ai suoi abbonati. Insomma, quando mercoledì prossimo, nella Sala della Lupa di Montecitorio, Bertinotti inaugurerà la rassegna (da Milano insieme al dipinto, che fa parte delle raccolte civiche, arriverà anche l'assessore alla Cultura Vittorio Sgarbi) si rivisiterà l'epopea del proletariato italiano. Resta da chiedersi se per parlare dei lavoratori «Quarto Stato» sia l'opera oggi più adatta. «È un dipinto importante, più per il suo valore di icona che per la qualità - dice Gino Agnese - presidente della Fondazione Quadriennale di Roma - Ma se il quesito fosse girato a Jeremy Rifkin, risponderebbe di no: il lavoro di massa è in liquidazione, il futuro è dei braccianti della tastiera. Archeologia per archeologia, io avrei visto meglio La città che sale di Boccioni con il grande cavallo in primo piano e le impalcature dei palazzi dietro. Inizialmente si intitolava Il lavoro. Ed è una grande opera d'arte».