E adesso
si discuta del politico
diqua e di là, e che lezione di giornalismo, con lui se ne va un mondo, e tutte queste belle parole di circostanza che come tutte le frasi vacue delle grandi occasioni non vogliono dire nulla. Finita la solennità del momento forse, ma è molto difficile, si potrà discutere del Biagi non giornalista. Insomma, del Biagi degli ultimi anni. Diciamo degli ultimi venti. Quello del sermoncini serali, degli editorialini buoni per ogni stagione. E soprattutto del Biagi che si mette a tre giorni dal voto a fare l'appello, dagli schermi della tv pubblica, affinché gli italiani votino per uno (e non ha importanza quale) piuttosto che per l'altro. Quello non era giornalismo. Come non è giornalismo neppure mettersi a firmare i piccoli appelli a favore di una candidatura piuttosto che di un'altra. Ha dimostrato che il suo non era giornalismo. Anche lui faceva l'attacchino dei manifesti di una parte politica. Attacchino di lusso, ma pur sempre di attacchino, agitprop. C'è modo e modo di schierarsi. I giornalisti americani lo fanno, è vero. Ma nessuno mai si è permesso di farlo dalla tv pubblica. Né mai la tv pubblica ha concesso comizietti da rione. Biagi lo ha fatto. E non è stata una parentesi. È stato un programma politico. Sia chiaro, c'è chi ha fatto di peggio tipo un presidente del consiglio che denuncia il suo uso criminoso della tv. Per non parlare del fatto di averlo rimosso. Dunque, non si tratta di discutere del Biagi giornalista: non avremmo i titoli per farlo. Possiamo limitarci a sottolineare che spesso metteva la firma sotto cose che non erano sue. O non erano soltanto sue, bensì frutto di una squadra, di altri che facevano il lavoro per lui (e lo stesso non lo si può dire per esempio di Montanelli). Si tratta di discutere del Biagi politico, sì. È esistito anche quello. F. d. O.