La vergine di ferro
Da allora il regno elisabettiano divenne un oasi di pace e prosperità. A circa di dieci anni di distanza da "Elizabeth", Cate Blanchett torna a vestire i panni regali in "Elizabeth The Golden Age", che rievoca gli anni in cui, appoggiato dalla Chiesa di Roma e armato dal potere dell'Inquisizione, Filippo II cercò di distruggere la regina eretica, protestante, zitella e senza figli. Il film, in prima europea ieri alla Festa di Roma, uscirà venerdì distribuito dalla Uip. Ad interpretare il fedele consigliere Francis Walsingham è Geoffrey Rush. In questo percorso, Elisabetta I è impegnata a difendere il protestante regno d'Inghilterra non solo dalla cattolicissima e Invicibile Armada di Filippo II (Jordi Molla), ma anche dalle congiure di corte orchestrate dalla cugina Maria Stuarda (Samantha Morton). E soprattutto deve controllare la passione per un mezzo pirata, troppo affascinante (Clive Owen), dalla quale è pericolosamente attratta e per il quale scopre un'umana vulnerabilità. Elisabetta I è una donna emancipata e moderna e certo la sua "verginità" le ha consentito di vivere a lungo in un'epoca in cui le donne morivano di sifilide o di parto. Per Cate Blanchett, reduce dalla Coppa Volpi ricevuta a Venezia per il film di Todd Haynes su Bob Dylan, «Elisabetta è per un attore come Amleto. Tanti interpreti si sono misurati con lei, penso a Glenda Jackson o a Helen Mirren. Quello di Elisabetta è un viaggio epico, una battaglia con se stessa, un viaggio verso l'emancipazione. Alla fine sarà vittoriosa, sovrana e guerriera, ma come donna scoprirà il prezzo da pagare per la libertà, ovvero la solitudine. Mi viene in mente Hillary Clinton o Lady Diana, personaggi analizzati e stragiudicati dai media. Non ho nulla in comune con Elisabetta, anzi. Del cinema italiano amo Fellini e Antonioni: lavorando nel film su Dylan mi sono ispirata proprio a Fellini e a Marcello Mastroianni».