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Il fantasma rosso che non vuole sparire

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Da un lato, le odierne polemiche sulla politica estera del governo, hanno offerto lo spunto per una riflessione sul peso dei condizionamenti che gli eredi della dottrina marxista hanno avuto nel nostro Paese. Dall'altro, l'apertura di numerosi archivi internazionali, tra cui quelli degli stati dell'ex blocco sovietico, pone nuovi spunti di analisi e valutazione delle nozioni storiografiche consolidate. Il convegno, organizzato da "L'icocervo", rivista elettronica di metodologia giuridica, teoria del diritto e dottrina dello stato, e dalla Fondazione Magna Carta, ha accolto le ragioni di quanti, forti della convinzione che la storia di un Paese risieda anche nella consapevolezza del proprio passato, avvertono il dovere di recuperare il senso di una ricerca costruita su dati di fatto. Fedele a questa visione il richiamo fatto a Franco Marini da parte dello storico Piero Craveri, primo firmatario di un appello ai presidenti delle Camere per la messa a disposizione dei documenti della commissione Mitrokhin tutt'ora secretati: «È grave dal punto di vista politico e scorretto da quello istituzionale che la seconda carica dello Stato, non solo non abbia fatto nulla per portare a conoscenza degli storici, così come la legge consentirebbe, le carte contenute negli archivi dell'Istituzione che presiede, ma non si sia neppure occupata di fornire una risposta a circa cento studiosi che l'hanno interpellata». Un duro attacco alla strategia estera della maggioranza è stato invece alla base dell'intervento del vicecoordinatore di Forza Italia, Fabrizio Cicchitto: «La credibilità internazionale del governo italiano, dopo la liberazione di cinque capi talebani, è ridotta ai minimi termini». A Cicchitto, direttore de L'ircocervo, il compito di introdurre le relazioni degli storici, da Piero Craveri e Gaetano Quagliariello a Roberto Pertici, Gianni Donno, Victor Zaslavsky e molti altri. Parlare di comunismo all'interno dell'attuale sistema politico italiano, ha un significato preciso, o si tratta di evocare un fantasma scomparso con la fine del secolo scorso? Questa, la domanda retorica posta alla base del ragionamento dell'ex deputato socialista, secondo cui la storia del comunismo italiano «non è finita né nel 1989, con il crollo del muro di Berlino, né alla Bolognina e nemmeno con il cambio di nome del PCI in PDS prima e in DS poi, ma, in forme atipiche, aggiornate, talora paradossali e contraddittorie, dura sotto molteplici spoglie politiche fino ai giorni nostri». A dimostrarlo, l'attuale «geografia politico-parlamentare» e il ruolo determinante rappresentato dalla componente massimalista del governo Prodi. Le radici e le ragioni dell'«anomalia» del comunismo italiano, del mancato affermarsi di un'autentica corrente riformista, andrebbero allora ricercate nella storia stessa di quel PCI rifondato da Togliatti, Secchia, Longo e Amendola: «Cosa è stato il Pci tout court?» Alla vulgata ufficiale del partito, che parte dall'inscindibilità del nesso Gramsci-Togliatti, per arrivare ad affermare l'origine autonoma della cultura politica di Togliatti e del suo partito, viene opposta un'interpretazione di segno contrario: lo stalinismo come componente intrinseca del successo del partito e una particolare attenzione sulla rottura umana, politica e ideologica tra l'autore dei Quaderni rossi e il leader del PCI. Secondo la ricostruzione proposta dai contributi di Elena Aga Rossi, docente di Storia contemporanea all'Università dell'Aquila, e di Victor Zaslavsky, professore ordinario di Sociologia politica alla Luiss di Roma, se in Italia, nel periodo post bellico, non si ebbe la guerra civile, fu devuto ad una precisa disposizione staliniana piuttosto che alla diretta volontà di Togliatti. «La storiografia marxista - sostiene Aga Rossi - ha a lungo ignorato i rapporti tra PCI e Urss creando una serie di miti

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