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di GIAN LUIGI RONDI STILL LIFE, di Jia Zhang-Ke, con Zhao Tao, Han Sahming, Wang Hong Wei, Cina-Hong Kong, 2006.

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Lo firma Jia Zhang-Ke, un autore di serie qualità, conosciuto e apprezzato soprattutto nei festival, non solo a Venezia, per ben tre volte, ma anche a Cannes e a Berlino. Di sfondo, ma spesso incombenti, i lavori di quella gigantesca diga sullo Yangtze, il fiume più lungo di tutta l'Asia, che durano da quarant'anni e che saranno finiti solo nel 2009, con il risultato di fornire l'elettricità a tutta la Cina, ma anche con la conseguente demolizione e inondazione di interi villaggi i cui abitanti, nel tempo, si son visti evacuati anche di forza. Al centro, la storia, distinta in capitoli separati, di due coppie. La prima è quella di un minatore che va a cercare l'ex moglie, per incontrare una figlia che non vede da sedici anni. La seconda è quella di una infermiera che va a cercare il marito, da due anni lontano da casa. Il minatore, alla fine, forse si ricongiungerà con l'ex moglie, l'infermiera, che nel frattempo ha incontrato un altro, finirà invece per divorziare. Attorno a queste due storie, la gente, sorpresa nei suoi travagli d'ogni giorno, chi dedito al lavoro o, al contrario, ansioso di trovarne, e chi, disorientato da quelle opere di demolizione e poi di inondazione, si ritrova senza più casa né radici. In una cifra costante di osservazione quieta, all'insegna del realismo più rigido. Sia i protagonisti dei due capitoli, sia i personaggi che incontrano sono rappresentati dal vivo, come se si scoprissero lì per la prima volta davanti alla macchina da presa. I climi che li accolgono, anche quando si increspano, sono a tal segno commessi da risultare in qualche momento solo allusivi, con grandi silenzi, ritmi così trattenuti da favorire spesso delle lunghe pause che sembrano trattenere il respiro del racconto, pretendendone ancor prima dell'osservazione, la meditazione su tutto quello che espone. Affidandosi ad immagini che, pur rappresentando il quotidiano, anche il più aspro, anche il più duro, tendono a privilegiare sempre un'armonia figurativa non lontana dalla pittura: non solo le facce ma le cornici; quelle naturali a margine, spesso abbacinate, quelle in cui campeggiano dei lavori di demolizione cui il paesaggio deve una distruzione totale, espresse allora con luci quasi sinistre.

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