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Realismo e sentimento nel dramma dei TavianiNel film «La masseria delle allodole» i fratelli hanno diretto Paz Vega e Angela Molina

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I FRATELLI Taviani, Paolo e Vittorio, dopo due felici esperienze televisive («Resurrezione» e «Luisa Sanfelice»), dimostrano, tornando al cinema, di continuare a dominarlo imponendosi sia con quei valori estetici sia con quegli impegni civili che li avevano già splendidamente sostenuti in opere della qualità e della grandezza de «La notte di San Lorenzo», il film italiano più importante, nell'82, dell'intero decennio. E si pensa difatti, di fronte a questa «Masseria delle allodole», proprio a «La notte di San Lorenzo»: là, nel Duomo di San Miniato, la strage compiuta dai tedeschi, nel '44, ai danni di una popolazione inerme, qui, nel 1915, in una piccola città turca, l'inizio di quel genocidio degli Armeni a tal segno orrendo che la Storia l'ha quasi rimosso mentre qualcuno ha tentato addirittura di negarlo (come oggi c'è chi nega l'olocausto). Ancora una volta lasciando però la Storia come cornice e portando in primo piano gli individui con i loro dolori e le indicibili atrocità di cui sono vittime. Si comincia con il funerale di un vecchio patriarca armeno che la sua famiglia fa celebrare anche con la partecipazione di un ufficiale al comando della guarnigione turca lì di stanza. Già però, pur non condivise da questo stesso ufficiale, che apprezza gli Armeni si intuiscono le prime avvisaglie del genocidio ordinato direttamente da Istambul e che, quando la famiglia si ritirerà in campagna in una masseria detta appunto «delle allodole», esploderà con furia selvaggia provocando la morte di tutti i suoi maschi, adulti e bambini e costringendo le donne a una marcia forzata verso una destinazione dove comunque ad attenderlo ci sarà la morte. Se ne salverà solo un piccolo gruppo ma, per facilitarne la fuga, dovrà sacrificarsi proprio la ragazza, figlia del capofamiglia, chiamata a far da filo conduttore a tutto il dramma: all'inizio, grazie a un suo sentimento segreto per un giovane ufficiale turco da cui sarà abbandonata, e da ultimo, per un incontro con un altro militare. Sempre turco, cui, dopo essersi data per sopravvivere, riserverà, corrisposta, un momento sincero d'amore. Sia pure avviandosi ad una tragica fine. Questi strazi dei singoli, a margine di uno strazio anche più grande, i Taviani se li sono fatti suggerire da un romanzo di una scrittrice italiana di origine armena, Antonia Arslan, dividendoli in due parti stilisticamente ben equilibrate fra loro. La prima, nella cornice campestre della masseria, quando comincia, con crudissimi accenti, quella strage che poi diventerà genocidio, La seconda, con terribili lacerazioni, la marcia di aguzzini spietati pronti a uccidere chi si ferma. Costruendo in mezzo sia nell'una sia nell'altra, dei personaggi dalle fisionomie approfondite. Privilegiando comunque con quelle una coralità che sa abilmente alternare la quiete all'affanno, i sentimenti all'orrore. Seguendo una linea narrativa di forte impatto emotivo, facendovi a poco a poco dilagare, tra le pieghe, un'angoscia proposta persino al momento in cui quei pochi si salveranno e diventata la cifra più coinvolgente di un film che, pur con questo, non è mai manicheo. (Ci sono anche dei turchi non allineati con i carnefici, così come, ne «La notte di San Lorenzo», c'era quel giovane militare tedesco che cantava il «Tanhäuser», visto a distanza dai superstiti della strage). Le immagini, di una straordinaria vitalità pittorica, ben organizzata dai due autori, si debbono a Giuseppe Lanci. Le scenografie, duramente realistiche, sono di Andrea Crisanti. I costumi, figurativamente preziosi anche quando diventano stracci, sono di Lina Nerli Taviani. Al centro, un gruppo di interpreti di saldo rilievo, all'insegna soprattutto della tradizione europea: Paz Vega, la turbata protagonista, André Dussollier, nel disagio dell'ufficiale turco che rifiuta la strage, Tehéquy Karyo, il capofamiglia armeno, Moritz Bleibtreu, il militare turco che s'innamora. Cui si accompagn

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