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Ma la norma garantisce allo Stato il controllo della terra: milioni di contadini restano schiavi

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Resta la terra che mantiene la veste di proprietà dello Stato. Curiosamente in un incontro con i giornalisti stranieri di questa legge il primo ministro Wu Jiaobalnon non ne ha parlato, cosa che ha fatto correre l'ipotesi di un contrasto di vertice. Ha invece parlato della corruzione dilagante, sostenendo che è il risultato della concentrazione del potere (ma chiunque tenterà di allargarlo si troverà dinnanzi delle solide barriere di filo spinato); e dei diritti civili affermando che non sono monopolio dell'Occidente, tacendo poi sul fatto che in Cina siano platealmente negati (basta un niente per finire in galera o sulla forca, questo è il Paese con la maggiore massa di esecuzioni capitali, oltre 1500 lo scorso anno). Infine della democrazia, qualificando quella cinese di "democrazia socialista". Ma torniamo alla legge che concerne il diritto alla proprietà privata, fuori di dubbio un passo avanti rispetto al principio del libero mercato finora dominante in Cina. Un mercato, per usare le parole del vecchio leader Deng Xiaoping, che è «senza pietà, e non attribuisce un prezzo alle lacrime». E in effetti la Cina di Mao o del dopo Mao delle lacrime, specie le lacrime della gente comune, se ne è sempre infischiata. In Russia Lenin il potere lo aveva conquistato facendo leva sulla classe operaia, Mao su quella contadina. Ma non sono state poche le contraddizioni nelle quali si era poi rinchiuso questo immenso Paese, dalle cooperative di aiuto reciproco alle Comuni contadine, dal grande balzo in avanti all'acciaio da cortile, dal fanatismo della Guardie Rosse alle lotte di potere nel vertice del partito - spesso con risvolti da tragedia - la Cina ha pagato un tale esperimento con qualcosa come cinquanta milioni di morti, la più parte per fame. Chiusa, con una dichiarazione di fallimento, l'epoca del comunismo puro e duro, il Paese si è volto al libero mercato con risultati di crescita a dire il vero spettacolari, pur nel quadro di una grande contraddizione di fondo, il sopravvivere del partito unico. Un partito unico che ha voluto dire la dittatura di pochi; fra l'altro per dirla con Milovan Gijlas di una nuova classe di ricchi e di privilegiati, loro, i loro figli, e i nipoti. La legge che concerne il diritto alla proprietà priva darà adesso fiato alle trombe dell'ultrasinistra, fra l'altro dell'ultrasinistra italiana. Ma saranno una volta di più delle note stonate, visto che la legge in questione non fa che ufficializzare una realtà di fatto, l'esistenza in Cina di una nomenklatura, estremamente ridotta di numero, che sbandierando il vessillo del libero mercato ha saldamente in mano il controllo delle principali holding del Paese, dall'energia all'acciaio, dall'edilizia al software, e via via. Coloro che vestono Armani, inalberano dei Rolex d'oro al polso, guidano delle Ferrari, abitano ville lussuose, e hanno amanti oltre che delle mogli. Magari delle amanti accasate, come dire?, un poco fuori porta, a Hong Kong o a Singapore. Si dirà che quel che conta sono i risultati, i ritmi di sviluppo del cosiddetto drago cinese che sono impressionanti, fra i più elevati del pianeta. Ma vogliamo dare un'occhiata al rovescio della medaglia? La stessa legge sul principio della proprietà private ce ne offre l'occasione, là dove esclude la terra. Questo perché non si vuole rinunciare a quei forse duecento, probabilmente trecento milioni di schiavi che fanno parte integrante del "miracolo" cinese. Oltretutto è storia antica, parte determinente delle vicende di ogni regime comunista, quale che sia la faccia che ha preso col tempo. Cominciò il padre Stalin in quel terribile inverno 1929/1930 collettivizzando spietatamente le terre per farne, come affermò (rubando un vecchio programma trotzkis

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