Premio Nonino 2007. Parla Carlo Petrini, fondatore di Slow Food
I prati verdi al posto della neve sono come la cancellazione della biodiversità. Danno spaesamento, anche psicologico». Tempo impazzito, ritorno ai saperi tradizionali. Parla Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, guru di allevatori e di contadini («proprio così, chiamateli contadini e non agricoltori», dice), di cuochi, gastronomi, nutrizionisti (1600 delegati da 650 Paesi all'ultimo summit di Terra Madre). Se c'è un nome giusto per il Premio Nonino 2007 è il suo. Sabato prossimo a Percoto (Udine) riceverà - tra canti, balli e sapori friulani - il Risit d'âur, la Barbatella d'oro, il tralcio, logo dei Nonino, sapienti produttori di grappa. Le parole chiave di Petrini sono facili. Non c'è futuro di questa Terra, e dunque neanche nostro, se non si smette di ferirla. Questo inverno strano suona l'allarme: caldo, effetto serra, desertificazione, fame. «La fame - taglia corto Petrini - resta la piaga più profonda del pianeta. Eppure la Fao ci dice che nel mondo si produce cibo per 12 miliardi di persone, e noi siamo in tutto poco più della metà». E allora? Come rientriamo nel circolo virtuoso della produzione di cibo? «Certo non con gli ogm, il golden rice, che riesce a nutrire solo in una dieta ricca di altre sostanze. Un esempio: nella mia terra, il Piemonte, mangiavo in un ristorante una leggendaria peperonata, cucinata con i peperoni quadrati d'Asti. Il cuoco è sempre lo stesso, la peperonata no. Perché quei peperoni non li producono più, li fanno venire dall'Olanda, costano meno. E che cosa c'è nelle serre riservate una volta ai peperoni? Bulbi di tulipano. Li spediscono in Olanda per farli fiorire! Un paradosso dell'agroindustria globalizzata. Non si capisce che il segreto della corretta produzione di cibo è rispettare l'economia locale. Si tramanda il know how che dà buoni frutti, si crea un legame col consumatore, che diventa coproduttore». Un'agricoltura etica, un po' come la finanza etica di Yunus, il banchiere dei poveri Nobel per la Pace? «Una ricetta per superare i guasti dell'economia di mercato. Basta col consumo velocizzato, fatto di abbondanza e spreco. Basta anche con la produzione velocizzata. Al loro posto un circuito a vista, un contatto stretto tra produttore e consumatore». Insomma, un ritorno al passato? «No, una concezione moderna e vincente. L'economia locale può ora contare su una rete internazionale che organizza domanda e offerta. Può imporsi la filiera corta. Non più industrie agricole che producono quantità enormi di derrate da spedire in tutto il mondo. Ma produzione rilocalizzata. Non è utopia. Negli Usa, patria dei supermercati, adesso vanno i farmer's market, i mercati dei contadini, quelli che per esempio dal New Jersey vanno a vendere a New York. Un altro modello è la Community Supported Agricolture: il consumatore prenota la produzione annuale del contadino. Il primo sa di poter contare su alimenti sani e freschi, il secondo di vendere tutta la sua merce. E si eliminano costi di trasporto e intermediazione. Pensi che vantaggio ne avrebbero ospedali o mense scolastiche. Del resto nel nostro Paese i mercati contadini prendono il via col patrocinio di pubbliche istituzioni e della Coldiretti. Cento punti di acquisto, alcuni già operanti in Val di Chiana o in arrivo a Piacenza». Lei ha scritto un libro, «Buono, pulito e giusto». Cosa significano i tre aggettivi? «Buono, che dobbiamo mangiare bene. Anche con cibi poveri, con l'economia di sussistenza, che ancora si pratica nel Sud del mondo. È quello che si faceva da noi, quando si pativa la fame ma le donne sapevano realizzare gustosissimi piatti poveri. Pulito significa cibo che non distrugge l'ambiente e la biodiversità. Prenda la valle del Po. Troppi allevamenti di suini, perché il mercato richiede prosciutti su prosciutti. Ma intanto i nitrati inquinano le falde acquifere, le stesse che poi irrigano i campi di mais, ormai monocoltura del territorio. Che succederà quando il mercato non vorrà più prosciutti e mais?». E giusto che cos'è? «Significa che il contadino dev'essere