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Scarna ed evocativa la regia di Albertazzi Convince l'orchestra diretta da Neuhold

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Da una parte (il testo all'uopo tradotto in tedesco) ci sono i raffinati parallelismi poetici, i richiami verbali, i giochi delle ossessive ripetizioni poetiche, il nauseabondo senso di perversione "maudite" e di morte incombente, la macabra necrofilia, dall'altra (la partitura musicale) le forzature foniche quasi espressioniste, le dissonanze, il canto esasperato, l'amalgama timbrico da "musikalisch drama" di stampo tardoromantico. Essendo tradotto in tedesco, generalmente Wilde finisce inevitabilmente col soccombere alla forza d'urto e alla potenza di fuoco musicale dei panzer strumentali della possente orchestra straussiana. All'Opera di Roma - nell'occasione ieri dell'apertura della stagione - la scelta di un attore di vaglia come Giorgio Albertazzi per la regia della Salome di Strauss doveva quindi servire forse proprio a bilanciare lo strapotere oggettivo della musica sulla parola poetica. E difatti a restituire i suoi diritti di paternità putativa a Wilde era già sufficiente il prologo parlato preposto al dramma musicale, con tre attori in bianco e nero (qui Salome è incarnata dalla bella Maruska Albertazzi, che non è parente del regista), fini dicitori alla ribalta a snocciolare l'essenza del testo wildiano con funzione propedeutica e didascalica preliminare. L'impatto con le scelte scenografiche invero non dispiace: da una parte una scala a ventaglio, dall'altra la petrosa prigione del Battista che, con roteazione a sorpresa, rivelerà la marmorea testa mozza (quasi berniniana) del profeta dopo la lasciva danza di Salome. Al centro un praticabile alquanto inutile con accenno tetrastilo a un vetusto tempio romano. Pienamente condivisibile è il senso di asciuttezza, di essenzialità, la mancanza di orpelli scenografici, spesso abbondanti in precedenti allestimenti teatrali. Ma sorprende tuttavia l'assenza di qualsivoglia rappresentazione di ogni simbolo del potere, della epifania della regalità e della corte (troni, insegne, tavole imbandite, drappi) e il tetrarca Erode appare alla fine forse piuttosto un povero diavolo più isterico e fragile del solito, ostaggio di due donne terribili, prigioniero della sua insonnia e della sua incapacità appunto di comando. Piace anche il trascolorare di una luna di diverse dimensioni, sulla falsariga dei cambiamenti del testo, che accompagna l'azione e l'inaspettato, tragico epilogo, trapassando dal bianco candido al grigio, al nero dell'eclisse sino al rosso del bagno di sangue. Due invece i talloni di Achille dell'operazione: uno è dato dal finale incomprensibilmente quasi in dissolvendo, laddove la musica è ben più precisa a riguardo quasi a raccontare il secco colpo mortale della mannaia sul capo di Salome. Il secondo concerne la sempre attesissima danza dei sette veli, appannata da una illuminazione inadeguata che neutralizza le danzatrici di contorno per dare unico risalto alla cantante, certo più seduttiva per le parti messe in mostra che per il movimento sinuoso del corpo. Il progressivo lascivo denudamento delle bianche membra, concepito per veri voyeurs nottambuli televisivi, ha davvero poco a che fare con la raffinata seduzione della danza orientale di cui la danza del ventre è tutt'oggi bene o male legittima erede. Nonostante gli sforzi apprezzabili della esperta coreografia di Gabriella Borni. L'esecuzione musicale, diretta con solerzia da Gunther Neuhold, non denuncia fortunatamente invece cali di sorta grazie anche alla buona vena dell'orchestra capitolina. Elogiabile in blocco anche il cast vocale con la valente Francesca Patanè in Salome ("una sedicenne con voce di Isotta" secondo le intenzioni di Strauss) più algida che passionale ma vocalmente sempre generosa e sfumata, Reiner Goldberg in un Erode bislacco e burattinesco, il bronzeo A

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