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Nei «fiori rossi» di Zhang l'infanzia oppressa e negata

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ALL'ASILO come in un campo di concentramento. Senza sevizie, senza privazioni, anzi, se a tavola si vuole qualcosa in più basta alzare la mano. Tutto però costretto entro un ordine prestabilito e meticoloso, orari, gesti, abitudini, dal momento di andare a dormire a quello di andare di corpo, e anche quello a ora fissa, tutti insieme e tutti in fila accovacciati, i bambini di qua le bambine di là e, se non si esegue, via quei fiori rossi di carta che vengono dati a chi, invece, fa tutto come richiesto: per arrivare a un livellamento totale, a una omologazione di ogni personalità, e fin da adesso che non si sono ancora superati i quattro anni... Ci ha raccontato questo «inferno» sotto l'apparenza dell'idillio, uno dei più significativi registi cinesi di oggi, Zhang Yuan, di cui si è già visto qui da noi un altro piccolo inferno familiare, «Diciassette anni», su una ragazza che, uscita di prigione perché, in un incidente, aveva ucciso la sorellastra, torna in permesso in casa dei genitori, accolta come si può facilmente immaginare. La vicenda, qui, è corale, ma per mettere bene in evidenza le condizioni di quel carcere infantile, il regista, rifacendosi a un romanzo autobiografico di Wang Shuo, di cui a Locarno, nel 2000, si vide, - anche un film da lui diretto - l'ha fatta rivivere al centro da un bambinetto che, prima quasi distrutto da quei sistemi che gli controllano duramente ogni istante, assume poco per volta atteggiamenti quasi da ribelle, arrivando fino a provocare una specie di fantasiosa rivolta contro una delle due maestre che lì controllano tutti. Risolvendo però alla fine la sua ribellione solo con una piccola fuga che, com'è chiaro, rimarrà senza esiti. Con quel piccolo in mezzo e, via via, il mutamento dei suoi atteggiamenti, il film scorre via limpido e nitido senza aver mai l'aria di assumere scopertamente toni polemici ma in realtà, esibendo, sia pure in modo sommesso (la censura vigila...) l'intransigenza di quei sistemi educativi indirizzati, fin dalla prima infanzia, a far di ciascuno un rappresentante di individui ridotti a una massa di uguali, nei pensieri, negli atti, nelle scarsissime reazioni, arrivando addirittura alla... globalizzazione. Un cinema sostenuto e forte, pur sempre tranquillo in superficie, con la possibilità, a contatto dei bambini, di essere perfino litico e tenero, ma, dall'interno, pronto sempre a graffiare e a esplodere. Suscitando angosce. Il bambinetto al centro è, naturalmente, un piccolo esordiente. Non poteva però essere scelto meglio: gli occhi sempre tristi, il candore affiancato alla collera. Sembra diretto da De Sica.

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