Arriva Garibaldi. Senza camicia rossa
Un'Italia che allora non c'era, quanto meno come Stato unitario, c'era invece un Piemonte (meglio noto come regno di Sardegna) che mirava a svolgere un suo ruolo in Europa. E per questo era disposto a spendere vite e denaro in una spedizione in Crimea accanto alle grandi potenze dell'epoca; una spedizione quanto mai impopolare presso la gente comune, che la Crimea magari non sapeva nemmeno dove si trovasse, se non nella mente immaginifica del primo ministro e conte Camillo Benso di Cavour. Facile su questo versante il paragone con la decisione prodiana non tanto di portarci in Europa, dove oramai ci stiamo, e saldamente, ma di far stringere la cinghia agli italiani per raggiungere un equilibrio di bilancio, insomma per fare bella figura coi professori di Bruxelles che nemmeno ci domandano tanto, e basterebbe dirgli: "Un po' di pazienza, signori, mica possiamo ridurci sul lastrico" per rispettare dei parametri usciti dalla vostra fervida fantasia; l'Italia rimane un grande paese anche se non manda truppe in Crimea, cioè se mantiene un certo livello di debito pubblico che si può ridurre con maggiore gradualità. Garibaldi guerrigliero in Sud America? A guardare ai legionari che gli riuscì di racimolare vien da pensare al governo presente, dove c'è di tutto e il contrario di tutto, la più eterogenea delle compagini, e si capiscono le difficoltà di portare avanti una linea politica - allora una guerra - con gente che tira da una parte e altri in senso inverso, la sofferta vicenda della Finanziaria insegna. Ma veniamo alla grande impresa di Garibaldi in Italia, la spedizione dei Mille. Partire alla ventura avrebbe potuto essere una decisione alla Prodi, un "la va o la spacca", tanto c'è di improvvisazione nelle sue scelte quotidiane, difficile comprenderne la ragione da parte di un uomo che sa di economia. Stargli alle spalle con tutta la prudenza del caso, consentirgli di requisire le armi ad Orbetello, negoziare con gli inglesi la neutralità della loro marina al momento dello sbarco a Marsala, e magari, come da alcune parti si dice, corrompere un qualche generale borbonico, insomma tessere la tela che garantisse il successo di Garibaldi fu opera di Cavour, e qui si potrebbe vedere la mano di un Berlusconi; salvo più avanti - il paragone è inevitabile - vedere rispuntare Prodi, stavolta nei panni di un Vittorio Emanuele II che con poco far play e altrettanto scarsa generosità impone a Garibaldi, in quel di Teano, di passare nella riserva. E nemmeno gli dice grazie per aver regalato ai Savoia un regno; così come non c'è stato neppure un cenno di riconoscimento, anzi il dileggio, persino la menzogna nei confronti di quello che hanno saputo fare Berlusconi e Tremonti insieme per garantire al governo presente il più consistente gettito fiscale della storia della Repubblica. È certo che non sarebbe dispiaciuto a Prodi veder partire Berlusconi in volontario esilio a Caprera con appena un pugno di sementi in un sacchetto. Berlusconi è invece rimasto a Roma, e conduce ovunque possibile, in Parlamento o in piazza, l'opposizione. L'episodio di Aspromonte? L'attacco contro le forze dei garibaldini che in un momento giudicato a Torino non opportuno si erano messi in marcia verso Roma, la meta ambita di ogni buon patriota risorgimentale, la ferita di Garibaldi alla coscia che lo getta a terra incapace di muoversi se non in barella? No, qui ci si deve fermare, la voglia di attribuirlo a Prodi non tiene di fronte al personaggio quale egli è. Cerchiamo di concludere con un pizzico di pettegolezzo, e diciamo subito che si tratta di un avvenimento dove il giudizio non può che accomunare Berlusconi e Prodi come l'interfac