Visto dal critico

Dopo tante ricerche, non sempre fortunate, nell'ambito di un cinema considerato «difficile», Lars vor Trier affronta oggi un cinema che, a torto, ritiene facile, quello della commedia. Lo spunto da cui parte è dei più consueti perché, più o meno, si costituisce sullo scambio di persona, però, almeno agli inizi, è riuscito un po' a rinverdirlo. Siamo infatti a Copenhagen. Il fondatore e dirigente di una azienda di informatica da anni, per essere ben visto dagli impiegati che lo seguono fin dagli esordi, ha preso l'abitudine di attribuire tutte le decisioni più sgradite a un immaginario «grande capo» che gestisce negli Stati Uniti altre aziende delegando lui alla danese. Un giorno, però, sommerso dai debiti, avendo deciso di cedere l'impresa a un industriale islandese, si sente dire da costui che firmerà solo se si troverà di fronte, alla pari, il «grande capo», in persona. All'altro adesso tocca solo di inventarsene uno così prezzola un attore perché reciti in quelle vesti. Con risultati, tuttavia, piuttosto discutibili, che, dopo varie rivelazioni, condurranno a una conclusione a dir poco incongrua... Lars von Trier che, come sempre, si è scritto anche il testo, deve aver sentito questa incongruità, così è ricorso ad una trovatina che qua e là nel corso dell'azione, gli fa commentare la vicenda interloquendo ironicamente con lo spettatore. Convince però a metà così come fatica a convincere quella costruzione narrativa che, partendo da un equivoco, continua a svolgersi tra una serie continua di altri equivoci, destinati forse, nelle intenzioni, a divertire, ma il più delle volte quasi inerti, senza scatti né brio. Con un solo guizzo, notevole però soprattutto per spettatori locali, la caratterizzazione coloratissima dell'industriale islandese cui è affidata la rappresentazione di tutti quei luoghi comuni fioriti da anni attorno alla quasi proverbiale inimicizia degli islandesi nei confronti dei danesi da cui, in passato, sono stati dominati (anzi, «colonizzati») per quattro secoli. Da von Trier regista, oltre a tutto, si era in diritto di aspettarsi di più. È vero che, per le tecniche, si è valso, teorizzandolo, di un sistema nuovo, detto Automavision, che dovrebbe facilitare le riprese, ma onestamente quasi non lo si percepisce, a parte, forse, in una diversa luminosità nelle immagini e in una loro composizione più accurata. Non direi comunque che se ne sentisse il bisogno. Poco da dire degli interpreti. Hanno il classico fisico del ruolo, ma, anche se lo vogliono, non fanno ridere.