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Sangue e intollerabile violenza nella saga Maya di Gibson

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DOPO aver trasformato, in «The Passion», la Via Crucis dei Vangeli in un film dell'orrore, adesso Mel Gibson se la prende con i Maya, evidentemente attirato da quei loro costumi efferati documentati peraltro dalla storia. Volendo ancora una volta dimostrarsi autentico (e realista), come in «The Passion» i personaggi li aveva fatti esprimere in aramaico, qui li ha indotti a parlare nella lingua Maya Yucateco che non è morta del tutto perché, nello Yucatan, dove l'azione si ambienta, la parlano ancora varie migliaia di persone. Questa azione, con il contributo di un iraniano con studi a Londra, Farhad Safinia, qui al suo esordio, l'ha costruita secondo i modi classici con cui Hollywood affronta i film catastrofici. Prima l'idillio, in un villaggio in mezzo alla foresta dove il protagonista, un giovane papà, vive con una giovane moglie in attesa di un secondo figlio. Poi l'avvio del terrore perché da una città Maya lontana, bizzarmente ricostruita, sopraggiungono guerrieri ferocissimi per deportare quegli abitanti del villaggio che venderanno poi, alcuni, come schiavi, destinandone altri, i maschi più giovani, ad essere sacrificati agli dèi per placarne la collera manifestata da qualche tempo con pestilenze terribili. Il protagonista arriva fino al momento in cui dovrebbe essere ucciso, ma se il sole non più oscurato da un'eclisse rivela che gli dèi si sono placati non evita comunque una condanna a morte da cui si salva solo fuggendo. Il suo inseguimento riempie, in abbondanza, tutta la seconda parte della vicenda che Gibson, con un'abilità comunque indiscutibile rappresenta con ritmi più che affannati, chiedendo a un tipo nuovo di cinepresa digitale di moltiplicare le immagini in movimenti che privilegiano la corsa, infittendole con la sua ormai consueta propensione per la crudeltà e la violenza. Basterebbe quell'inizio, con una adrenalica caccia a un cinghiale di cui poi i nativi si spartiscono ad uno ad uno tutti i visceri, per arrivare non solo ai sacrifici umani, con i cuori strappati dai corpi ma, appunto, a quella fuga del protagonista sempre inseguito che tende a rifarsi a tutte le tensioni possibili, e a qualcun'altra in soprannumero. Risultato? La fedeltà storica è certamente rispettata (perfino con quel blu con cui sono dipinte le vittime sacrificali), ma il gusto è troppo spesso violato: per eccessi che tutto lacerano, alternati del resto, per un altro verso, a stasi e a lentezze mal governate. I protagonisti, anche se, quasi tutti, esordiscono al cinema, hanno già avuto spazi in altri tipi di spettacolo, sia se indiani Comanchi, il «buono», sia se messicani truccatissimi, i «cattivi». Per convincere, comunque, ce la mettono tutta.

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