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Come diventare felici a costo zero

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Poi a lavare i piatti a mano, a usare la lavatrice solo per le lenzuola, un bucato a settimana invece di uno ogni due giorni. Scarpe rigorosamente risuolate, stop alle serate in pizzeria, il cinema solo di lunedì alle 15, quando costa supermeno. La strategia del ragno, quella del passo indietro, della rinuncia a tutti i costi. Prima gli ha fatto male, poi ci ha pensato su, ha razionalizzato la spesa, s'è liberato dall'euforia del consumo per accaparrarsi l'euforia del risparmio. Adesso, dice, vive felice. È la parabola di Antonio Mazza, giornalista disoccupato, all'improvviso. Ormai sono dieci anni che deve per forza far quadrare il bilancio e adesso della sua filosofia del risparmio ha fatto un libro, Vivere semplice (Castelvecchi), ovvero «come spendere quel poco che ci è rimasto ed essere felici». C'è chi è più radicale di lui. Come Judith Levine, una yankee che - guardandosi tornare a casa, dopo il classico sabato pomeriggio di shopping selvaggio, carica di sacchetti, pigiata in metro tra gente altrettanto impigliata in buste griffate - per un anno non ha comprato più nulla, tranne i beni di prima necessità. Via il superfluo, nella spazzatura la carta Visa, no neanche a quello che più le piace, il cinema. Pure lei ha raccontato la Grande Rinuncia in un libro, Io non compro (ma l'originale Not buying it funziona ancora meglio perché gioca sul doppio senso non la bevo) pubblicato da Ponte alle Grazie. C'è pure uno specialista, Matteo Motterlini, che analizza i sussulti di spesa e risparmio in Economia emotiva (Rizzoli). E sulle strade della capitale campeggiano cartelloni per pubblicizzare l'Ordine dei risparmisti. Sono sussurri e grida del ceto medio che è sceso giù giù, che è border line quanto a povertà. E oltretutto risuonano in questi giorni di diapason del consumismo. Che cosa ne pensa il decano dei sociologi, Franco Ferrarotti, autore di indagini sul popolo per eccellenza dei non abbienti, quello delle periferie? Insomma, per il professore, in quest'Italia sempre più coi rattoppi sui pantaloni, conviene l'ascesi della Levine, fare la formica come l'«eroico» Mazza, o infischiarsene e raschiare il barile, bersi una bottiglia di champagne e gettarsi dietro le spalle il calice di Boemia, alla maniera dei nobili russi, scappati dall'onda che travolse la corte degli zar? «Beh, il modello Levine è un'utopia, quanto lo sperpero. Il modello Mazza ci conviene di più - risponde risoluto Ferrarotti - non ci è rimasto molto da buttare». Allora dobbiamo rassegnarci alle ristrettezze? «Il fatto è che in Italia si nota un fenomeno di grande interesse, lo slittamento della povertà, l'aumento degli indigenti. E non avviene, si badi bene, nelle periferie degradate. No, la povertà scivola verso i quartieri bene, dove vive il ceto medio che si trova il reddito falcidiato dall'inflazione». La colpa è stata nostra, per un'inedita abitudine a scialacquare sviluppatasi negli anni del rampantismo, oppure la causa è dell'euro, ancora oggi - vedi un recentissimo sondaggio del Sole 24 Ore - percepito dagli italiani come il Grande Affamatore? «Gran parte del danno è stato causato dalla poco saggia transizione dalla lira all'euro. Invece in Francia, in Spagna il nuovo corso è avvenuto in maniera più oculata». Ma poi, professor Ferrarotti, chi è il nuovo povero? E come si comporta? «È, per esempio, il professore di scuola media. Sua moglie, per arrotondare, non può mica andare a servizio nel quartiere, c'è comunque uno status da onorare. Così via la colf a ore, spesa rigorosamente al discount, niente motorino ai figli, che adesso se lo devono far prestare. E lui, il prof, che ancora non c'è la fa, spegne le lampadine, fa come Mazza. Produce molto e consuma poco. La società italiana ora, checché ne dicano certe analisi più o meno legate al Palazzo, vive un grande disagio. Ma non è il disagio dei poveri abituati ad esserlo da generazioni, quella povertà rassegnata e fattiva, capace di fronteggiare il bisogno. La nuova povertà è nel terrore di cosa potrà succedere domani, è il

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