In barca aveva doppiato Capo Horn ed evitato gli iceberg dell'Antartide Segnalò lo scioglimento dei ghiacci

Ogni marinaio sa che davanti a Capo Horn, dove il Sudamerica si tuffa nelle onde gelide che annunciano l'Antartico, Satana si trascina in catene sul fondo. Accade sopratutto «nelle orride notti di tempesta, quando le acque e le ombre oscure dal cielo sembrano salire e scendere su quegli abissi», come raccontava lo scrittore cileno Francisco Coloane. Ma nel dicembre 2000 il leggendario navigatore neozelandese Peter Blake condusse senza sforzo il suo yacht "Seamaster" oltre le insidie infernali: non era la prima volta che doppiava il Capo, il punto marino più tumultuoso del pianeta, ma ci era sempre passato davanti di fretta, spinto dal fervore agonistico delle regate d'altura. In questo caso, invece, poteva permettersi di attraccare nelle insenature del Canale di Beagle, tra gli estremi avamposti dell'umanità e fiordi inesplorati, prima di affrontare il viaggio verso il Polo Sud, ben oltre i "Sessanta stridenti", la latitudine dove le imbarcazioni temono di inoltrarsi, tra frangenti che incombono come palazzi di otto piani e il "cimitero degli iceberg", quei colossali monumenti naturali modellati dal ghiaccio, che in molti casi superano in altezza i 130 metri. Guardando le cime innevate alla convergenza meridionale fra Cile e Argentina, Sir Blake - che nel 1994 aveva stabilito su un catamarano il record per la circumnavigazione del globo senza scalo - sentì che quella sosta era «un immenso regalo, è come riempire un vuoto che avevo dentro». Lo scrisse sul diario di bordo del "Seamaster" lanciato verso la missione polare, da lui voluta per capire se il pack si stesse sciogliendo, e se l'inquinamento e il riscaldamento della Terra avessero già prodotto effetti tangibili nell'ecosistema dell'emisfero Australe. Quella, peraltro, era solo la prima parte di un viaggio che doveva concludersi molte miglia più a nord, dopo aver risalito l'Atlantico fino in Brasile, tra le correnti del Rio delle Amazzoni e del Rio Negro. E fu proprio lì, dopo una vita trascorsa ad evitare ogni sorta di naufragio e navigare sfidando senza sosta le divinità degli oceani, che Sir Blake trovò la più banale delle morti. A ucciderlo non fu certo il "boto", quel delfino rosa di fiume che le leggende locali vedono a volte come lo spirito degli annegati, o come un essere capace di trasformarsi in seduttore, un playboy antropomorfo responsabile di inspiegabili gravidanze tra le ragazze che abitano lungo le rive. A sparargli fu una banda di "topi fluviali", pirati straccioni che volevano rubargli un motore di riserva e qualche orologio. Blake si comportò da vero capitano, facendo scudo col corpo per difendere il suo equipaggio: a bordo c'erano anche i figli adolescenti, mentre sua moglie era ripartita solo qualche giorno prima. Morì così, di notte, quel 5 dicembre 2001, mentre la "Seamaster" era placidamente ormeggiata, le vele calate, la chiglia mai mossa ad inquietudine in quelle acque rese scure dalla tenebra e dal tannino. Il 27 ottobre, sceso ad esplorare la vegetazione attorno al Rio Negro, aveva riportato sul diario una frase che suonava come un presagio obliquo: «Qui nella Foresta Amazzonica, dove si celano alcune tra le creature più pericolose del mondo, ho perso gran parte del mio coraggio». Si riferiva ai serpenti velenosi, agli insetti malarici, alle formiche che ti mordono le caviglie. Non sapeva che l'agguato fatale glielo avrebbero teso dei volgari ladruncoli, appartenenti alla specie che lui, ecologista non allineato, vedeva come unica responsabile del disfacimento del pianeta. Lo denunciava con le sue imprese, con il ruolo di inviato speciale dell'Onu per i temi ambientali, e con gli scritti sull'«Ultima grande avventura»: quelli che a cinque anni dalla scomparsa vengono pubblicati anche in italiano, nel pregevole volume fotografico delle Edizioni Mattioli 1885 (49 euro). Il cuore caldo di quella spedizione, com'è ovvio, batteva sotto la crosta gelida dell'Antartide. Sir Blake filava già al largo della costa meridionale del Brasile, ma la nostalgia per quei luogh