Colloquio con Andrea Ungari, storico della Luiss
«Al primo gruppo appartengono i fatti d'Ungheria del '56, la restaurazione comunista a Praga del '48 e la cosiddetta rivoluzione castrista del '59. Il controllo delle superpotenze ha influenzato, fra gli altri, anche i rivolgimenti in Cile, Argentina e a Cuba». Nelle ex colonie, niente interventi stranieri? «La decolonizzazione sfocia in un inferno di etnie in paesi, soprattutto quelli africani a composizione tribale. Sullo sfondo prolifera il commercio di armi, una forma di superpotenza globale». Che rapporto hanno i dittatori con i mass media? «Esclusivo. Stalin lo sapeva bene, Mussolini, da giornalista si fece prima il suo giornale, poi pensò al resto. Chi prende il potere, prima deve accaparrarsi le tv e puntare su una forte spettacolarizzazione. Penso al Burundi e al Ruanda da dove sono arrivate immagini cruente di Hutsi e Tutsi massacrati col macete, donne stuprate da uomini dell'una o dell'altra fazione per rimpinguare la popolazione. Penso alle bombe sui passanti nella ex Jugoslavia». Qual è l'immagine a cui conferisce maggiore valore storico? «Il ritorno trasmesso dalla tv degli ostaggi americani rapiti dai khomeinisti nel 1980. Una vicenda mal trattata da Carter. Ma anche il segnale che i segreti di Stato erano finiti per sempre, grazie all'avvento della comunicazione di massa». La spettacolarizzazione che è riuscita maggiormente a ridicolizzare un dittatore? «I servizi su Imelda Marcos e la sua fissazione per le scarpe. Il processo in diretta a Ceaucescu e alla moglie». La prima volta di uno scoop su un colpo di Stato? «La stampa inglese, dopo la prima guerra mondiale con la denuncia dell'eccidio degli Armeni in Turchia». Il dittatore è solo? «No, ha sempre una buona fetta della borghesia accanto a sé». Storicamente si può associare una virtù al dittatore? «L'efficienza purtroppo fondata sul sangue». Perché il popolo talvolta ne resta ammirato? «Perché per prima cosa, ogni dittatore promette che il pane costerà di meno». A.F.