Lezioni di solitudine dal professor Ligabue
Lui dice: «Non bisogna avere paura di restare soli. La solitudine fa parte della vita. Occorre coltivare l'amore, gli affetti e l'amicizia, ma non dobbiamo avere paura di rimanere a contatto con noi stessi». Parole sensate: ma è lo scenario a rendere ironica - o almeno contraddittoria - quell'enunciazione. Perché attorno a Luciano si affollano migliaia di studenti, e fuori dall'Aula Magna del rettorato molti altri premono ai portoni, tutti lo invocano, qualcuno cerca di raggiungerlo inoltrandosi su passaggi impervi, tra scale di sicurezza e balaustre. C'è anche qualche urlo contro i poliziotti, ma alla Sapienza se ne sono viste di più tese. Dentro, è una sontuosa gazzarra. Il "Liga" sottolinea di non aver niente da insegnare a nessuno, che si aspetta domande, come quelle che ha rivolto a se stesso buttando giù poesie, le 77 che Einaudi ha pubblicato nel volume "Lettere d'amore nel frigo". Versi, spiega all'Università, da interpretare «come sfoghi personali, e anche per questo non ho adoperato punteggiatura di interpunzione, niente punti, niente virgole. Solo qualche punto interrogativo per fare chiarezza con me stesso». Le canzoni, invece, «sono messaggi che devono arrivare alla gente, e devono essere accessibili e chiari». Curiosa, l'insicurezza degli artisti. Temono la solitudine, e quasi sempre lo dichiarano, magari in modo tacito, semplicemente salendo su un palco o accendendo un microfono. Si svegliano di notte per l'incubo di non vedere nessuno, lì davanti. Si circondano di folle per accendere una torcia nella propria psiche, e li diresti egoisti, disinteressati a ogni altra sorte. In tanti, troppi casi è davvero così. Ma con Ligabue riesce difficile credere che sia solo vanità, narcisismo, piacere di sapersi ascoltato e nulla più. Quando sottolinea che «i giovani devono restare attaccati alla vita, senza mai perdere la fiducia» non può essere la vanagloria di un estemporaneo maestro del pensiero. Se non ci crede, allora è ben detto. Ma non pare un così bravo fingitore. Basta dare un'occhiata al quintuplo dvd appena uscito, che documenta in modo più che esauriente il "Nome e cognome tour 2006": quattro concerti, 92 esecuzioni di 57 brani, il pamphlet del dopo-Campovolo, quel concertone che poco più di un anno fa, davanti a 180mila spettatori, decretò - senza fargli sconti - i pregi e i limiti di Luciano davanti all'emozione che ti benda la gola, anche dopo mille notti passate a suonare in pubblico. Qui, nel monumentale box, ritrovi le fasi di quell'inclemente autoespiazione del Nostro, che da allora si è risperimentato dapprima nei club, poi nei palasport, quindi negli stadi, infine nella dimensione più raccolta ed apparentemente evocativa delle strutture per prosa, o nei tendoni. Ieri, la prima delle due serate al Gran Teatro di Roma. Oggi si replica, poi il rocker emiliano tornerà l'11, 12, 14, 15 e 17 dicembre, cinque show con i biglietti già dati per esauriti, anche se non si sa mai. Al vernissage, il dottor Ligabue (fresco di laurea honoris causa in Scienze della Comunicazione all'ateneo teramano) è apparso in magnifica forma, attraversando i due tempi del concerti dapprima in splendida solitudine (quella che fa paura, ma che avvolge di segreta ebbrezza ogni gesto creativo, di chiunque e ovunque) e poi accompagnato dai fidi amici di scena: Mauro Pagani, come sempre immenso multistrumentista, il chitarrista (occasionalmente anche al sax) Mel Previte, la sezione ritmica di "Rigo" Righetti e Robby Pellati, le tastiere di Josè Fiorilli. Due ore aperte dalla confessione a versi sciolti di "Sono qui per l'amore" e chiuse dalla furia, qui splendidamente trattenuta, di "Urlando contro il cielo" e "Tra palco e realtà". Nel mezzo, avventure inconsuete, come "Walter il mago", ma anche tutte le pagine più belle del suo diario di cantautore: la nudità sentimentale di "Ho messo via", "Ho perso le parole" o "L'amore conta"; gli inni sospesi tra speranza e nostalgia come "Eri bellissima" o "Piccola stella senza cielo"; l'orgoglio mai dissimulato di "Questa è