di LORENZO TOZZI MANCAVA dalle scene dell'Opera di Roma da ben cinque lustri.
Se solo cinque dovessero essere i titoli di teatro musicale da salvare, è certo che insieme al "Don Giovanni", al "Boris Godunov", al "Pelléas et Melisande", al "Wozzeck" un posto di diritto spetterebbe proprio anche al "Tristano" di Wagner, un'opera che sublima il potere espressivo della musica. Ci fu chi ebbe a notare l'apparentemente scarsa vitalità della trama (si tratta pur sempre di un amore fuori dalle convenzioni morali e matrimoniali con finale tragico) ma è pur vero che tutto quello che accade nell'animo dei personaggi, ogni sfumatura sottile vive nelle vette vertiginose della musica di Wagner. Di vecchia data era la saga dei due sfortunati amanti, legati per sempre da un filtro d'amore bevuto per errore, quasi a giustificare la forza di un sentimento anche oltre i legami della morale e delle convenzioni sociali (Isotta è andata sposa a Re Marco di Cornovaglia, zio di Tristano). A parlarne per primi erano stati nel XII secolo Béroul e Thomas e poco dopo soprattutto il Minnesaenger tedesco Goffredo di Strasburgo. Gli elementi che in nuce risiedevano nella leggenda nordica (l'ascesi tragica dell'amore che sconfina nella morte e il senso di profondo fatalismo che incombe sugli uomini quasi pupazzi in mano ad una volontà superiore) sono splendidamente colti ed ingigantiti da Wagner anche attraverso quell'uso esasperato del cromatismo (che fu poi definito appunto "tristaneggiante" e che influenzò le nuove generazioni da Bruckner a Strauss sino a Schoenberg) che rimanda al senso della angoscia di vivere schopenaueriana. Fulcro dell'opera il celebre duetto di quaranta minuti, quasi metaforica sublimazione sonora dell'amplesso amoroso (si ascolti la stupenda lettura che ne dava De Sabata) con la sua voglia di abbandono totale, di naufragio, di un lasciarsi andare fuori dal tempo e dai corpi ("Così morremo uniti, per vivere congiunti, senza fine, senza risveglio" recita il testo) sino a naufragare nel respiro del Gran Tutto. Per l'idea romantica di amore, più spirituale che materiale, era difatti solo dopo l'abbandono degli involucri corporei che il sentimento d'amore dei due amanti, ormai non più fisicamente divisi, poteva realizzarsi pienamente per l'eternità. Non era del resto neppure un caso se a suscitare l'interesse di Wagner per questa storia era stata la sua relazione con Mathilde Wesendonck, 23enne moglie di un banchiere di Zurigo (alla quale sono dedicati i "Wesendonck Lieder", sinopia di temi conduttori del "Tristano" stesso). E l'urgenza dell'argomento è dimostrata anche dal fatto che per diverso tempo Wagner accantonò la scrittura del "Sigfrido" (seconda giornata della complessa "Tetralogia" del Ring nibelungico) per dedicarsi a questo nuovo progetto che sentiva vicino ed impellente. Autobiografico. Un dramma di anime dunque, intimo, avvertibile più nelle cangianti fluttuazioni armoniche della musica che nella evidenza visiva della scena e del gesto. Un'opera senza azione, in cui semmai l'azione è tutta interiore, intima, inconfessata. La lettura wagneriana della leggenda è puramente umana e si connatura di quel senso di compresenza di vita e morte che è non solo proprio della idea romantica dell'amore, ma anche di una città precaria ed eternamente in pericolo di vita come Venezia (e proprio o a Palazzo Giustinian sul Canal Grande Wagner scrisse tra il settembre 1858 e il marzo 1859 il focale secondo atto del Tristano). C'è insomma in Tristano il culto della notte opposta all'ipocrisia del giorno, c'è la romantica commistione di amore e morte, ma soprattuto il genio musicale di Wagner capace di rendere appieno i tormenti dell'anima romantica e delle sue contraddizioni in un linguaggio folgorantemente moderno.