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che ha attirato burle da Tiziano a Nixon

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Per Papa Giulio II, che lo acquistò a caro prezzo dal proprietario delle vigne dove il mirabile capolavoro fu ritrovato il 14 gennaio 1506, esso rispecchiava la sofferenza necessaria per la nascita della Roma antica ma alludeva anche alla rinascita che alla Città Eterna lo stesso Pontefice intendeva donare. Fra gli artisti, il più impressionato fu senza dubbio Michelangelo, che vide il "Laocoonte" insieme all'architetto Giuliano da Sangallo il giorno stesso della scoperta, avvenuta presso le Terme di Tito sul Colle Oppio. Secondo il teorico del neoclassicismo J. J. Winckelmann "la calma grandezza nella sofferenza" della figura di Laocoonte era l'esempio massimo della perfezione estetica raggiunta dall'arte greca. Per i parigini, che lo videro sfilare trionfalmente nel 1797 insieme alle opere depredate dall'esercito rivoluzionario, era l'emblema della caduta del Vecchio Regime e la prova che ora Parigi aveva preso il testimone passatole da Atene e da Roma. Curiosamente la magniloquenza titanica e retorica comunicata dalla gestualità del sacerdote troiano, che invano aveva messo in guardia i suoi concittadini dal far entrare il Cavallo di Troia, e dei suoi due figli soffocati dai serpenti ha suscitato anche ilarità, voglia di scherzo ed è stata spesso usata come strumento di satira politica. Tiziano rielaborò il gruppo scultoreo sostituendo le figure con scimmioni sofferenti, mentre Daumier vi ritrasse le contorsioni della Britannia in lottta col movimento indipendentista irlandese. Né va dimenticato che nel 1982 Giorgio Forattini ha ritratto sotto le spoglie di Laocoonte un Giovanni Spadolini avvolto dai tubi di un problematico gasdotto mentre una vignetta anonima mostrava il presidente Nixon, nudo come il sacerdote troiano, intento a divincolarsi dai nastri serpentiformi dello scandalo Watergate usciti fuori da un magnetofono. Mettendo da parte l'irriverente aspetto satirico, da giovedì e fino al 28 febbraio una grande mostra celebrerà i cinquecento anni del ritrovamento del Laocoonte che coincidono con i cinque secoli della nascita dei Musei Vaticani. L'evento espositivo si intitola appunto "Laocoonte. Alle origini dei Musei Vaticani" e per l'occasione l'imponente gruppo scultoreo, altro quasi due metri e mezzo, è stato spostato dal Cortile Ottagono all'interno dei Musei stessi. Attraverso cinque sezioni viene documentata la fama della scultura nel corso del tempo, tramite studi ed opere che vanno dall'antichità all'epoca contemporanea. Fra i nomi di spicco rappresentati in mostra, con repliche e rielaborazioni del Laocoonte, spiccano Jacopo Tatti detto il Sansovino, Rubens, che ne fece oggetto di inesausta ammirazione, Bernini, che ne prese a modello il figlio minore per il "Daniele" della Cappella Chigi di S. Maria del Popolo a Roma, Francesco Hayez, Arturo Martini. Una citazione a parte meritano due spagnoli: Salvador Dalì, che ha dato vita ad un sorprendente "Laocoonte tormentato dalle mosche" e Andreu Alfaro, che ha estrapolato le sintetiche linee-forza delle figure elaborando una composizione completamente astratta eppure chiaramente identificabile. Nonostante l'evidente ineluttabilità tragica del soggetto rappresentato, la storia e i riflessi simbolici del "Laocoonte" non sono invece completamente afferrabili e sfuggono ad ogni certezza. A cominciare dalla questione se il gruppo monumentale, realizzato dagli scultori Hagesandros, Athanadoros e Polydoros, sia la copia in marmo di un originale bronzeo del II-I secolo a.C., come sostiene Bernard Andreae oppure, nell'opinione di Salvatore Settis, sia un originale dei tre maestri di Rodi prodotto in Italia verso il 40-20 a.C. Del resto, come si è visto, ha più facce anche la natura del suo messaggio: per alcuni e in certe epoche ha prevalso l'aspetto tragico, per altri invece l'accentuazione anatomica e fisionom

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