Visto dal critico
L'amico di famiglia che Sorrentino mostra perfido e cupo
PAOLO Sorrentino ha sempre mostrato di voler privilegiare dei personaggi negativi, pronti a respingere qualunque simpatia. In «Un uomo in più» ha esordito con due perdenti coinvolti in realtà sordide, «Le conseguenze dell'amore» ci ha detto di un gelido contabile della mafia che alla fine non riscattava nemmeno una morte voluta. Oggi ci propone il suo personaggio più nero, un laido usuraio, Geremia, che vive, sul litorale, in un lurido tugurio, pur essendo ricchissimo, insieme con una madre sempre a letto, viscida e lercia, intenta a vedere sui teleschermi solo documentari in cui gli animali si mangiano tra loro. Attorno non c'è gente migliore di lui perché, salvo rare eccezioni, chi gli si rivolge per dei prestiti onerosissimi, lo fa per giocarsi il denaro al bingo, o per comprarsi un titolo nobiliare o per affollati pranzi di nozze seguiti dal dono di bomboniere pacchiane ma costosissime. In una di queste nozze Geremia conosce una promessa sposa non dissimile da un angelo ma molto simile a un demonio. La vorrà, per annullare il debito con il padre, se ne innamorerà, persino ricambiato, ma anche stavolta le «conseguenze dell'amore» saranno catastrofiche. Aggravate da altri incidenti che ridurranno Geremia sul lastrico... Tutto su quell'orrido protagonista. Sporco, vestito quasi di stracci, con un braccio ingessato mentre con l'altro regge sempre un sacchetto da barbone, «amico di famiglia» con tutti, in realtà nemico di ciascuno, anche di una specie di socio da cui, alla fine, verrà ricambiato con un fosco tradimento. Non risparmiandoci nemmeno i più piccoli dettagli vòlti a umiliarlo e facendo procedere l'azione a gradi, per sottolineare con precise indicazioni tutte le abiezioni del personaggio. Standogli sempre vicino con la macchina da presa, avvolgendolo in luci scure e soffocanti (vi si incarica la buia fotografia di Luca Bigazzi), evocandogli attorno delle figure senza mai spiragli. Con un linguaggio che, anche negli esterni (una città, forse Latina, che sembra rubata a de Chirico), ricerca l'oppressione, l'affanno, persino l'incubo, abilmente sorretti, da costanti ricerche di effetti figurativi preziosi. In mezzo, onnipresente, il «mostro»; cinico, perfido, spregevole, ironico. Ricreato da un attore napoletano di teatro, Giacomo Rizzo, che ne sviscera con realistica sapienza gli aspetti più turpi. La donna che finirà per somigliargli è la bella Laura Chiatti, l'amico traditore è il quasi irriconoscibile Fabrizio Bentivoglio, baffuto, barbuto, con cappello e modi da cowboy.