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di DARIO SALVATORI AVEVA ragione Gigi D'Alessio: a Napoli per poter dire che sai ...

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A Gigi D'Alessio, che giovanissimo era già riuscito a suonare con Pino Mauro, Angela Luce, Mario Trevi, Antonio Lo Rundo e altri grandi calibri della canzone napoletana, mancava proprio lui, il re. Il dinamico D'Alessio non solo ci riuscì ma ottenne dal generoso maestro anche un prestito di dieci milioni di lire, visto che se la passava malissimo, con moglie e figli a carico. Ma non era artisticamente contento. La sua ambizione era quella di scrivere una canzone per il grande Mario Merola, proporgliela, magari cantarla insieme. Proverbiale la generosità del maestro: «Va bene, scrivila, io la canto con te, ma la canzone si dovrà chiamare "Cient'anne". E basta». Perché? I soliti scongiuri napoletani? Una forma scaramantica verso il raggiungimento dell'eternità? Diciamo fissazione d'artista. Mario Merola aveva in mente da tempo questo titolo, che nella sua personale accezione non voleva solo dire cento anni, o un secolo. Cient'anne è una persona, un pescatore molto vecchio descritto dalla penna straordinaria di Raffaele Viviani, il grande autore e commediografo per il quale il cantante ha sempre avuto una autentica venerazione. Merola era particolarmente affezionato alla figura di questo pescatore di grande esperienza e molto saggio che, seduto sul molo, dava consigli ad altri pescatori, prevedeva se il tempo sarebbe cambiato, come sarebbe andata la pesca, intuiva i possibili pericoli. Era una sorta di grande padre - somigliante un po' al Santiago di Ernest Hemingway nel suo "Il vecchio e il mare" - che ogni mattina salutava i suoi tanti figli che prendevano il mare per lavorare, come lui aveva fatto per anni e anni. Chissà, forse Merola si riconosceva in quel personaggio che poteva essere la proiezione della sua vecchiaia. Gigi D'Alessio riuscì nel suo intento: «Mario Merola canta 'na canzona dinto 'o disco mio», andava ripetendo. Quella sera che lo registrarono, D'Alessio passò tutta la notte a duplicare il brano, portandolo personalmente alle principali radio napoletane. Il giorno dopo "Cient'anne" si ascoltava già ovunque, dai vicoli a Fuorigrotta. Mario Merola aveva 72 anni ma per tutti i napoletani ne aveva 100 e forse più. Nato nel rione mercato di Sant'Anna alle Paludi, padre ciabattino, impara a leggere e a scrivere da solo, come può. Calciatore mancato, facchino, aiuto cuoco («Maneggio molto bene il coltello perchè ho passato anni a pelare zucchine, melanzane e patate», rispondeva a chi gli faceva i complimenti per la perizia con le lame dimostrata nelle tante sceneggiate), scaricatore di porto a Napoli. Cambia vita casualmente nel 1958, quando dietro un consiglio di un amico, prova a cantare professionalmente. Debutta in quell'anno al Teatro Sirena con la sceneggiata "Malu figlio", sorprendendo subito per la drammaticità dei toni, la violenza del gesto, oltre che per la qualità della voce. Nel giro di un paio d'anni costruisce la sua reputazione di cantante istintivo, appassionato, verace, molto diverso dagli interpreti più popolari, quali Sergio Bruni, Aurelio Fierro, Mario Abbate. Nel 1964 si sposa con Rosa Serrapiglia, mette al mondo tre figli, si trasferisce a Portici. Sente l'esigenza di arrivare ad una platea più vasta e dal 1965 al 1968 partecipa al Festival di Napoli con brani che entrano nel suo repertorio e ottengono anche un buon successo di vendita: "'A sciurara", "Tu stasera si' Pusilleco", "T'aspetto a maggio", "Chiù forte 'e me", "Comm'a nu sciummo". Alla fine degli anni Sessanta si lancia in una sua personalissima battaglia: sdoganare la sceneggiata, portarla fuori dai confini regionali e rivalutarla come genere. Ci riesce pienamente con lavori come "L'emigrante", "Ammanettato", "Camorra", "Mamma addò sta?". Ma il suo cavallo di battaglia rimarrà "'O zappatore", felice bozzetto "strappacore", scritto da Libero Bovio nel lontano 1929. Un titolo con cui Merola riesce a fare dei pienoni a Milano, Torino e addirittura in Canada e negli Stati Uniti di fronte al presidente Gerald Ford, confuso

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