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Quando il tempo diventa una luce

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Erano gli anni Trenta, ancora lontano il tempo in cui avrebbe usato la sedia di regista. «A guardar bene quel periodo - amava raccontare il cineasta di Venga a prendere il caffè da noi e de La cicala scomparso nel 2005 - è stato un esercizio quasi cosciente ad assumere la facilità di conquista del cinematografo. E se uno prova a decifrare i miei film rintraccerà quei momenti supremi dell'immagine annegati nei chilometri del racconto. Forse la mia macchina fotografica faceva già parte ante litteram del neorealismo, pur essendo prigioniera della fissità del quadro». Momenti supremi dell'immagine, dice Lattuada. Dando alla foto il primato sul cinema, lui che il cinema ha fatto famoso. E adesso il regista milanese figura tra i fotografi della mostra Vu d'Italie 1841-1941 allestita fino al 10 dicembre nell'appena inaugurato Mnaf, Museo Nazionale Alinari della Fotografia. Un contenitore suggestivo, le ex Scuole Leopoldine in piazza Santa Maria Novella, a Firenze, per una raccolta della più antica ditta di fotografi, quei Fratelli Alinari - Leopoldo, Romualdo e Giuseppe - che nel 1852 aprirono un atelier in via Cornina e che avevano nel destino una sequenza di flash fortunati. Già nel 1889 ottengono la medaglia d'oro all'Esposizione Universale di Parigi, nel 1908 decolla l'attività editoriale, negli anni Quaranta l'Archivio dell'Azienda Alinari - passata al senatore Vittorio Cini - ammonta a 220 mila negativi su lastra. Il progetto di fare un grande museo di fotografia - ben più articolato di quel Museo di Storia della Fotografia costituito nel 1985 - è partito 24 anni fa. E ora il Mnaf squaderna immagini a partire dai dagherrotipi del 1839 per arrivare a quelle digitali e dei fotocellulari. Un altro regista, Giuseppe Tornatore, ha curato la scenografia del Museo. Privilegiando negli ambienti il nero, allusivo al buio della sala di proiezione e a quello della camera oscura, squarciato appunto dalla luce delle fotografie. Una sorta di viaggio interstellare rischiarato qua e là dal chiarore delle foto che galleggiano negli immensi recessi della memoria. Ha necessariamente dovuto scegliere, il regista di Nuovo Cinema Paradiso, nei 2 milioni e 750 mila negativi, nei 900 mila positivi in tiratura d'epoca, nei 6 mila album d'antan. «Un museo ha le sue regole - spiega - non tutto poteva essere esposto. Bisognava trovare il mondo di appagare la curiosità dei visitatori ma anche di dar loro l'illusione di vedere il resto. Ho voluto provocare suggestioni, creare momenti di seduzione visiva». Così il visitatore si trova avvolto dalle immagini, quelle appese alle pareti e quelle sempre diverse proiettate su grandi quadri che s'aggrappano al soffitto. Insomma, seduzione visiva. E storie, facce, scorci, atmosfere. Bravate di «paparazzi» ante litteram, di viaggiatori da Grand Tour prestati alla fotografia e poi diventati del mestiere per tutta la vita. Racconta Italo Zannier, tra i maggiori storici del settore: «Il tipo più intraprendente, quando nacque la tecnica che rivoluzionò anche la storia dell'arte, fu Horace Vernet, prima pittore, poi stregato dall'invenzione di Daguerre. Il vicerè d'Egitto, nel 1840, lo chiama a corte. Ad Alessandria fa ritratti e foto. Insegna la tecnica a Mehemet III, che poi, da solo, va a fotografare le sue concubine nell'harem. Ma l'esperimento è un fiasco. Allora ci riprova, portandosi Vernet appresso». Come, nell'harem, proibito agli estranei pena il taglio di chissà che cosa...? «Proprio così, il francese varca quella porta. Il dagherrotipo viene alla perfezione, Mehemet grato a Vernet gli regala la più bella delle sue spose. Ma qui il colpo di scena. Il pittore sa che l'odalisca ama un ufficiale egiziano. Allora fa un passo indietro e trasferisce il dono del vicerè al giovanotto in divisa». Un lieto fine da feuilleton, immortalato da Vernet in un dipinto esposto al Salon parigino del 1841. Tanti altri erano i geniali vagabondi delle imma

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