I Beatles condannati all'immortalità
Tenendogli la testa nella morsa delle sue manone, fece girare vorticosamente in aria il piccolo batterista: intanto, cantava una filastrocca minacciosa contro il suo avversario, il campione del mondo Sonny Liston. Per poche ore, tutto lo spirito trasognato e folle di un decennio sembrò materializzarsi in quella palestra di New York dove i Beatles erano andati a trovare lo sfidante per la corona dei massimi. Pareva scherzassero, l'uno e gli altri. Che affrontassero quel mondo pietrificato nei propri solenni cliché con la giocosa tracotanza di chi non teme un K.o. letale o un fiasco prematuro. Che fossero disposti ad andare al massacro, tutti insieme, senza curarsene troppo. Avevano dalla loro parte la carta d'identità, e una qualche segreta affinità: dei musicisti che prendevano a pugni le convenzioni, un boxeur che le suonava a chi non voleva sentir parlare di uguaglianza razziale. Nessuno pensava che sarebbero durati a lungo, su un ring o su un palco. Invece, eccoli ancora lì: impossibile staccare dal muro il calendario degli anni Sessanta, nonostante tutto quel che è accaduto nel frattempo. A partire dal 25 febbraio di quell'anno: quando il giovane Clay sconfisse il maturo Sonny, che pareva invicibile, e invece abbandonò il match di Miami alla settima ripresa, mentre era in vantaggio di punti. La mafia aveva già fissato la rivincita, non poteva andare altrimenti. Il fervente neo-islamico, ribattezzatosi Muhammad Alì, si impose anche nel secondo incontro, con quello che sarebbe rimasto negli almanacchi della boxe come uno scandaloso "pugno fantasma". Ma la leggenda incombeva: oggi la mano di Clay insegue senza posa rivali fatti d'aria, la sua voce da rapper disinibito è ridotta a un borbottio. Ma se guardate a bordo ring lo trovate ancora, commosso e trepidante per le sorti della figlia Leila. Di Liston, piuttosto, resta solo una figura di cartone sulla copertina di "Sgt.Pepper's", il disco che l'autorevole critico del "Times" Kenneth Tynan definì «un momento decisivo nella storia della civiltà occidentale». Eppure i Beatles erano partiti alla conquista dell'America - del pianeta Terra - angustiati dalla stroncatura dell'"Herald Tribune", che aveva definito il loro concerto «una pagliacciata che ha poco di britannico», improvvisato da un gruppo che «a quanto pare non è riuscito a portare la propria musica oltreoceano», e che aveva saputo far parlare di sé solo grazie a un cocktail composto da «un 75% di pubblicità, un 20% di capelli e un 5% di strani versi». Quarantadue anni più tardi, il consiglio comunale di Almaty, la capitale del Kazakhstan, ha approvato una delibera per la collocazione di un gruppo scultoreo raffigurante i quattro musicisti di Liverpool nella piazza attigua al Palazzo della Repubblica. È caduta l'Unione Sovietica, ma se guardi quelle statue ti pare di sentirle intonare "Back in The U.S.S.R.". Perché ai Fab Four è capitata una sorte stregata e velenosa: il Fato maliardo pretende per loro il ruolo eterno di testimoni di un tempo irrimediabilmente trascorso, e irrecuperabile. Sono caduti i Muri, le truppe di Zio Sam hanno traslocato dal Vietnam all'Iraq, Internet consente viaggi poco meno che psichedelici, sull'Ipod puoi buttare dentro un negozio di dischi. Ma i Beatles devono - per un contratto non scritto con l'immaginario collettivo dell'umanità - persistere presso di noi, sotto una qualunque forma. Non si tratta solo di buona musica, o di offrire la colonna sonora per i sogni di due o tre generazioni: il loro compito è di rassicurarci sull'immortalità. In modo laico, certo. E paradossale. A nessun gruppo rock di punta è stato "chiesto" di travalicare le proprie esistenze: i magnifici Rolling Stones sono ancora sulla cresta dell'onda, malgrado le rughe da tirannosauri, le teste spaccate, fiumi di alcool e montagne di cocaina. Fanno il loro splendido mestiere. Altri se ne sono andati, vinti dalla propria fragilità o dal vizio. Jim Morrison, Janis Joplin, Jimi Hendrix, Kurt Cobain. I soliti, insomma. Sep