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Addio Lauzi, cantautore dell'amor perduto

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Georges Moustaki e Johnny Hallyday vollero i suoi testi: «Lo straniero» e «Quanto ti amo»

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Eravamo a cena da «Carlo», in via della Lungara, con un gruppo di amici. Al momento di andarcene, un cameriere ci rincorse urlando: «Il cappotto del bambino! Avete dimenticato il cappotto del bambino!», porgendoci un cappottino dalle dimensioni veramente minuscole. «È mio», disse Lauzi, mettendo in imbarazzo il cameriere. Per la cronaca - ormai per la storia - è il caso di precisare che il mini cappotto era di Ricky Gianco, fra gli amici presenti alla serata, che ha sempre sovrastato in altezza, almeno di sei centimetri, il collega. In fondo, era il 1972, Bruno aveva appena scritto «Piccolo uomo» per Mia Martini, e dunque aveva qualche titolo per reclamare quel cappotto. Bruno Lauzi si stava innamorando di Trastevere. Ne era attratto, posseduto, non tanto dall'aspetto freak e notturno, dall'after-eight, da quella non remota possibilità di uscire per un aperitivo e tornare a casa dopo tre giorni. No, Bruno sembrava conquistato dai colori, dall'indolenza, dal fatto che, almeno in apparenza, tutti si conoscessero e si volessero bene. Per lui quel degrado che convinse molti del vecchio giro a cambiare quartiere - niente librerie, nessun negozio di dischi, costretti a vivere nelle pizzerie, citofono premuto a qualsiasi ora del giorno e della notte - non esisteva, anzi era da snob. Prese casa nella piazzetta di S. Callisto, dietro S. Maria in Trastevere, angolo torrido, sopra ad un bar che inventò il cucchiaino da caffè con il foro al centro. Un brevetto che poteva valere oro e che invece serviva solo ad impedire che i tossici si chiudessero in bagno a scaldarci l'eroina. Avevo sentito Bruno l'ultima volta al telefono, una quindicina di giorni fa; avrebbe dovuto partecipare al Premio Mia Martini, a Bagnara Calabra. Sarebbe stato ancora una volta l'ospite d'onore. Al telefono aveva una voce molto flebile, sembrava stanchissimo, ma non di cattivo umore. Ce ne accorgemmo tutti. Accanto a me c'era Giorgio Calabrese, il mitico autore dello storico gruppo genovese e anche lui sembrava rincuorato dalla vivacità del vecchio amico. Fu proprio insieme a Calabrese che Lauzi scrisse nel 1960 «O' frigideiro», un brano irresistibile composto un po' per scherzo ma anche per sottolineare la vicinanza di ispirazione del fraseggio e della pronuncia fra il dialetto genovese e la canzone brasileira. A Genova Bruno era arrivato piccolissimo, prima dello scoppio della guerra, dove il padre, costruttore, pensava di ricominciare da capo. Era nato ad Asmara, in Etiopia, e nessuno poteva prevedere che la città ligure sarebbe stata fra le più devastate dalla guerra. Però fece in tempo ad entrare, già adolescente, nel giro degli orchestrali, degli appassionati di musica, dei jazzofili. Anzi, la musica afro-americana costituiva un po' la linea di confine fra gli «scimmiati»(come avrebbe detto Paolo Conte anni dopo) e tutti gli altri. Nel 1953, grazie a Luigi Tenco, entra nella Jelly Roll Morton Boys Jazz Band, una formazione di appassionati rigorosi, puro omaggio al re creolo del ragtime e dello «stomp». Tenco suonava il sassofono, Lauzi il banjo, strumento chiassoso ma di grande compagnia. «Ho cominciato a far politica a 13 anni e musica a 26 - diceva - quindi sopravviverò». Aveva ragione, anche perché si riferiva alla longevità dei nostri politici, che non muoiono mai. Quando non potrò più far canzoni, amava dire, mi darò alla politica attiva. Un'immagine da antica tradizione ottocentesca, quando la politica era il coronamento di una vita di lavoro. Su questo, fortunatamente, si sbagliava, perché ha continuato a comporre e a cantare fino alla fine. Spiazzando, se possibile, il che non è poco, per chi ha un'età e un blasone da difendere. Le sue canzoni nascevano da bisogni interni, non costruibili né programmabili, con un'urgenza di cui andava orgoglioso. Non ha mai avuto padroni, né le case discografiche né il pubblico lo hanno vincolato. Accettava di essere al servizio di tutti, ma senza debiti morali. Lo capì nel lont

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